Gli occhi bassi, profondamente mesti e rassegnati, non hanno smesso di fissare a terra per tutta la durata delle sue nozze: una cerimonia imposta da altri e non certo scelta da lei.

A Grozny, in Cecenia, a fine maggio, la 17enne Kheda è stata costretta a diventare la moglie del colonnello di polizia Nazhud Guchigov, di quasi trent’anni più grande. «Consegnatemela o ve ne pentirete», aveva intimato alla famiglia della ragazza Nazhud, peraltro già sposato.
Minacce simili sono state rivolte anche alla giornalista di Novaia Gazeta, Elena Milashina, che sulle pagine del suo giornale – un periodico russo indipendente – aveva denunciato la storia: metterle una pattuglia alle calcagna è stato un segnale di avvertimento sufficiente a farle capire che da quel momento era un’osservata speciale e non le rimaneva dunque che lasciare la Cecenia. A quelle nozze era presente anche Ramzan Kadyrov, il luogotenente del presidente Vladimir Putin nel Caucaso: una sorta di legittimazione in piena regola da parte del regime. «L’onore della famiglia è la cosa più importante. Uomini, tenete le vostre mogli lontano da WhatsApp», ha ordinato il militare, in seguito all’ondata di polemiche e commenti indignati che si è scatenata sul Web dopo la pubblicazione on line delle foto nuziali.
Una barbarie tristemente diffusa
Ma la storia di Kheda non è che una delle tante che si verificano ancora oggi, di frequente, in molte zone del mondo. Secondo l’Unicef, nei Paesi in via di sviluppo circa 700 milioni di donne adulte sono diventate mogli prima dei 18 anni; di queste, una su tre ha contratto matrimonio quando ancora doveva compierne 15. Non è finita qui. Ogni anno, la gravidanza o il parto uccidono 70 mila adolescenti il cui corpo è troppo acerbo per dare alla luce una nuova vita.

Era il 2013 quando fece il giro della Rete, suscitando inevitabilmente commozione e rabbia, la notizia della morte della piccola Rawan, otto anni appena, dopo la prima notte passata con l’uomo a cui era stata venduta come moglie. Lui aveva 40 anni e il tragico episodio accadeva nello Yemen.
Rispetto al fenomeno delle nozze precoci e forzate, tuttavia, la maglia nera va al Niger, dove il 76% delle 20-24enni è stata costretta a un matrimonio precoce; seguono Repubblica Centrafricana (68%), Chad (68%), Bangladesh (65%), Mali (55%) e Sud Sudan (52%). L’India, che ha una percentuale di spose bambine del 47%, detiene però il primato (negativo) in termini assoluti, con oltre 10 milioni di donne sposate prima dei 15 anni; subito dopo troviamo il Bangladesh (2 milioni e 300 mila), la Nigeria (oltre un milione e 100 mila), il Brasile (877 mila), l’Etiopia (673 mila) e il Pakistan (600 mila). Questa terribile prassi si sta diffondendo pericolosamente anche tra le famiglie siriane rifugiate in Giordania, che in tal modo cercano di ridurre il proprio carico economico e, paradossalmente, di proteggere le figlie assicurando loro un futuro (sottoponendole, di fatto, a possibili violenze fisiche e morali dei “mariti compratori”). Non pensiamo, comunque, che sia un fenomeno esclusivamente confinato nel Sud Est asiatico piuttosto che nell’Africa subsahariana, in territori di guerra o campi di profughi: nella nostra occidentalissima Italia, si contano duemila spose bambine, in prevalenza di religione islamica.
Povertà, ignoranza, mentalità arcaica le principali cause
Quali fattori prevalenti sono alla base di questa violazione dei diritti umani, che contravviene ai principi della Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza (art. 12 e 19, in particolare)? Esigenze economiche in situazioni di estrema povertà – nelle aree più indigenti del pianeta, far sposare la propria bambina significa ricevere una dote dalla famiglia del marito – retaggi culturali atavici legati alla subalternità femminile, pressioni esercitate dalle autorità politiche e religiose locali sono alcuni degli elementi che maggiormente contribuiscono alla presenza delle “spose bambine”, peraltro più soggette, rispetto alle maggiorenni, a violenze, abusi, sfruttamento e condannate per sempre a una condizione di analfabetismo e totale dipendenza dal marito. Precocemente sottratte alla famiglia di origine e alla rete di amicizie con i coetanei e con gli altri membri della comunità, subiscono, in completa solitudine, le conseguenze che ne derivano, con pesanti ripercussioni sulla loro sfera affettiva, sociale e culturale.
Campagne umanitarie e azioni sociali a favore delle piccole vittime
Organismi non profit ed enti impegnati attivamente nel sociale, da tempo, stanno intervenendo su più fronti. L’Unicef, per esempio, ha avviato un’intensa opera di sensibilizzazione delle comunità sui diritti delle bambine e delle ragazze, affiancando i governi dei Paesi coinvolti in questi episodi per migliorare – in certi casi, anche solo attuare – leggi, politiche e servizi sociali.
Avete mai sentito parlare di Girls Not Brides (Ragazze, non Spose)? È una campagna globale con base a Londra che riunisce oltre 400 organizzazioni della società civile impegnate a sradicare questa pratica barbarica. Dal 2012 l’Ong Plan International ha avviato l’iniziativa Because I am a girl (Perché io sono una ragazza): quasi 400 progetti in Africa, Asia e America Latina con l’intento di promuovere l’istruzione delle bambine ed eliminare la violenze di cui sono vittime, come mutilazioni genitali, gravidanze premature e, appunto, matrimoni precoci. Solo nel 2014, le attività di Plan hanno raggiunto oltre 150 mila bambine che adesso hanno il potere di decidere se, quando e con chi sposarsi. Ma ci sono anche privati e comuni cittadini che hanno deciso di non stare a guardare passivamente. Una di loro è Stephanie Sinclair, fotografa americana autrice di un grande reportage, frutto di otto anni passati a indagare il fenomeno in alcuni Paesi del mondo dove tuttora si verifica (India, Nepal, Afghanistan, Yemen, Etiopia); un lavoro che è diventato una bella mostra itinerante, Too Young to Wed (Troppo giovane per sposarsi), sostenuta dalle stesse Nazioni Unite.
Non solo. Aspetto forse ancora più importante e significativo: i semi della rivolta si stanno diffondendo tra le stesse comunità locali. «Ho un sogno: voglio continuare a studiare e non sono pronta per sposarmi». In Bangladesh, Arzina aveva 13 anni, quando, con queste parole, si oppose a un matrimonio precoce a cui sembrava inesorabilmente destinata. Oggi, poco più che ventenne, Arzina sta completando la sua istruzione e, con un gruppo di volontari, fa la wedding buster: svolge opera di convincimento, presso le famiglie, a mandare a scuola le loro piccole invece che trovare loro un marito, spesso molto più vecchio. Quando è necessario, interviene materialmente con un’azione disturbante, per mandare all’aria cerimonie già fissate.
Non troppo lontano, in Pakistan, Humaira Bachal e Khalida Brohi hanno creato delle organizzazioni non profit per aiutare le loro connazionali a emanciparsi economicamente con un programma ad hoc per essere autosufficienti e proteggersi, in questo modo, dai matrimoni combinati.
A febbraio scorso, a Benisar, nello Stato indiano del Rajastan, una sessantina di bambine, ragazze e giovani donne sono riuscite a convincere le autorità locali e gli anziani della comunità a firmare per mettere al bando le nozze precoci, favorendo così l’attuazione di una legge già esistente, ma rimasta, di fatto, lettera morta per decenni, e promuovendo una vera e propria festa dedicata al female pride of India con una cerimonia solenne e piena d’allegria.
Tutte evidenti e nobili espressione dello shakti, in sanscrito “potenza”: l’energia creativa associata al femminile, dolce e armoniosa, ma non per questo meno intensa e incisiva, e che conduce inevitabilmente verso un’unica direzione. Quella del cambiamento.
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