di Cristina Penco. Il libro “Anche io” svela i retroscena dell’inchiesta sugli abusi sessuali a Hollywood.
Potere e abusi. Abusi di potere. Verità nascoste e rivelate. Il potere della verità. L’alternanza di termini ed espressioni evoca tutta l’intricata complessità che si annida tra le pagine di She Said, il libro-inchiesta sul caso del produttore
, ex numero uno della Miramax in carcere dopo essere stato accusato di stupri, atti sessuali criminali e molestie e dopo aver già ricevuto alcune condanne.

Il volume è stato scritto da Jodi Kantor e Megan Twohey, due giornaliste investigative del New York Times (in Italia è uscito da poco con il titolo Anche io, sottotitolo Ti senti di dichiararlo?, tradotto da Barbara Ronca per Vallardi).
Da quest’opera, inoltre, è stato tratto il film di Maria Schrader con Carey Mulligan e Zoe Kazan.
Per la loro indagine sul produttore Harvey Weinstein e sugli abusi sessuali a Hollywood, Kantor e Twohey hanno ricevuto il Premio Pulitzer per il miglior giornalismo di pubblico servizio; nel 2018 sono entrate nella classifica delle «100 persone più influenti al mondo» del Time.
Ambiguità e manipolazione
Anche io – frutto di un lavoro di analisi durato tre anni e basato su centinaia di interviste raccolte, da Londra a Palo Alto – si colloca nel solco di un ottimo giornalismo investigativo e permette di leggere tutto quello che non era ancora stato raccontato su una svolta storica del nostro tempo. A finire travolti dallo scandalo, oltre all’industria cinematografica, sono stati anche altri contesti professionali.
Il quadro complessivo che fa da sfondo alle vicende è quello di una perversa cultura dei luoghi del lavoro piena di ombre e ambiguità e diffusa in tutto il mondo, ambienti in cui le gerarchie e il potere contrattuale ed economico venivano – vengono – utilizzate per manipolare, violentare, terrorizzare. L’onda d’urto del movimento #MeToo ha travalicato i confini degli Stati Uniti, facendo sentire la propria eco anche in Europa e nel nostro stesso Paese, segnando uno spartiacque importante. Rispetto a inchieste che parlano di segreti governativi e illeciti societari, quella condotta da Kantor e Twohey descrive esperienze comune a molte persone sul lavoro, in famiglia, a scuola, portandoci al cuore delle vicende narrate.
Weinstein, il potente di Hollywood

Le prime accuse contro Weinstein furono depositate presso la polizia nel 2015, ma allora i pubblici ministeri di Manhattan si rifiutarono di perseguire il produttore, fino a quel momento uno dei più potenti di Hollywood, finanziatore di pellicole come Gang of new York, The Artist e il film da Oscar Shakespeare in Love.
Era risaputo ai più che Weinstein non andasse troppo per il sottile con attrici, dipendenti e collaboratrici, forte del suo potere e del suo ruolo.
Ma sembrava non ci fosse verso di avere una testimonianza, risalire a un documento o, ancora, avere in pugno qualunque cosa potesse servire a rendere pubblico ciò che da tre decenni avveniva dietro le quinte.
Le denunce contro di lui si concludevano sempre con generose compensazioni economiche blindate da rigidissime clausole di non divulgazione. In molti casi, le vittime preferivano non parlare, vivendo in silenzio la violenza subita come una colpa.
Senza contare, per giunta, che Weinstein era stato sempre molto attento alla costruzione della sua immagine agli occhi del pubblico: apparentemente si era proclamato sostenitore dei diritti delle donne (tanto da partecipare anche a una marcia in favore del genere femminile e della parità durante un festival cinematografico), si prendeva a cuore vari problemi umanitari, era uno dei finanziatori del Partito Democratico.
Le “bombe” dell’autunno 2017
Tuttavia, le voci che circolavano da tempo sul conto di Weinstein si fecero più insistenti e “rumorose”. Il 5 ottobre 2017 il New York Times pubblicò l’indagine delle due autrici di Anche io, Jodi Kantor e Megan Twohey, che riportarono i resoconti dettagliati di diverse donne che affermavano di aver subito abusi o molestie da Weinstein già negli anni Novanta.
Cinque giorni dopo, anche il New Yorker pubblicò un articolo, firmato da Ronan Farrow, che aveva raccolto a sua volta diverse rivelazioni relative alla cattiva condotta sessuale del produttore.
I due giornali toccarono la punta dell’iceberg, rivelando come il boss della Miramax avesse incaricato avvocati e investigatori per zittire le sue accusatrici. Entrambe le inchieste fecero pressione sulle autorità affinché fossero avviate indagini sul produttore. All’epoca tante donne scelsero di restare anonime. Tra coloro che inizialmente uscirono allo scoperto ci furono le attrici Ashley Judd, Rose McGowan e Asia Argento. Weinstein minacciò di adire le vie legali contro i giornali e continuò a negare ogni accusa a suo carico, affermando ripetutamente che le ricostruzioni erano false.
«Quelle che avete riportato sono imputazioni e accuse, ma non avete fatti incontrovertibili», dichiarò un portavoce del produttore alle due reporter del New York Times quando chiesero un commento alle rivelazioni pubblicate. Dopo circa un mese il dipartimento di polizia di New York rese noto che stava imbastendo un caso importante contro di lui. In parallelo, l’attenzione mediatica diede slancio al movimento noto come #MeToo: molte delle attiviste erano famose ed erano pronte a denunciare le molestie subite sul luogo di lavoro, a partire dal mondo dello spettacolo, ma non solo.
Tempi maturi

“Quando cominciammo la nostra inchiesta su Harvey Weinstein per il New York Times, le donne non avevano mai avuto così tanto potere”, scrivono Kantor e Twohey. “C’erano donne che lavoravano in settori un tempo preclusi – in polizia, nell’esercito, nell’aviazione civile.
Donne alla guida di intere nazioni, tra cui la Germania e il Regno Unito, e di grandi compagnie quali la General Motors e la PepsiCo. Per la prima volta nella storia una lavoratrice poteva guadagnare in un anno più di quello che le sue antenate, sommate insieme, avevano portato a casa in tutta la loro vita”.
Però poi, a ben guardare, alcuni schemi erano atavici e continuavano – continuano – a ripetersi.
“Spesso gli abusi sessuali sulle donne restavano impuniti. Fossero scienziate o cameriere, cheerleader, manager o operaie, troppe erano costrette a tacere sulle molestie subite, sulle oscenità e sugli approcci sgraditi pur di ricevere una mancia, una busta-paga o un aumento”. Le indagini giornalistiche e il libro-inchiesta hanno dato ascolto e dignità a quelle vittime e al carico delle loro esperienze.
Consapevolezza collettiva
Le moleste sessuali sono un reato, ma in molti ambienti di lavoro erano e sono la prassi. Per essere chiari, qui non si parla di mercificazione dei corpi né di scambi di favori: il punto nodale è e resta quello del consenso, tema su cui, a partire da quelle inchieste, si è scatenato un ampio dibattito. “Le donne che le denunciavano spesso non erano credute o venivano screditate. Le vittime venivano isolate l’una dall’altra.
La cosa migliore che potessero fare, secondo il parere di molti, era accettare un risarcimento in denaro e rimanere in silenzio. I responsabili, invece, spesso continuavano indisturbati a scalare le vette del successo. I molestatori erano accettati, incoraggiati persino, come fossero delle simpatiche canaglie. Era raro che andassero incontro a conseguenze serie”.
Quando il 5 ottobre 2017 pubblicarono lo scoop dei reati sessuali imputati a Weinstein – proseguono le professioniste – la diga si ruppe sotto i loro occhi. “Milioni di donne di tutto il mondo cominciarono a raccontare gli abusi subiti e gli uomini dovettero cominciare a rispondere delle loro azioni, una presa di coscienza collettiva senza precedenti.
Il giornalismo aveva contribuito a ispirare un cambiamento di paradigma. Il nostro lavoro era stato solo uno dei vettori di un cambiamento a cui lavoravano da anni pioniere femministe ed esperti di diritto, o protagoniste come Anita Hill o Tarana Burke, l’attivista iniziatrice del movimento #MeToo, e tante altre, incluse molte nostre colleghe della stampa”.
Capitane coraggiose

È interessante ripercorrere tutti i principali passaggi che hanno condotto alla portata oceanica di un sudato e pericoloso lavoro investigativo e all’impatto dirompente dell’opinione pubblica, a partire dalle motivazioni e dalle scelte devastanti di quante hanno rotto per prime il silenzio su Weinstein.
“Laura Madden, ex assistente di Weinstein e poi madre a tempo pieno nel Galles, ha trovato la forza di parlare nonostante fosse alle prese con un recente divorzio e in procinto di essere operata per un cancro al seno.
Ashley Judd ha messo a repentaglio la sua carriera, sulla spinta di un periodo poco noto della sua vita in cui si è allontanata da Hollywood per studiare e dedicarsi alle battaglie per l’eguaglianza di genere”.
Zelda Perkins, una produttrice londinese le cui denunce nei confronti di Weinstein erano state insabbiate grazie a un accordo stragiudiziale firmato vent’anni prima dei fatti del 2017, ha accettato di parlare con le due firme del New York Times malgrado le ripercussioni sul versante legale e su quello economico, tutt’altro che di entità trascurabile.
E in mezzo a tante voci femminili, ce n’è anche qualcuna maschile che porge la mano e dà un aiuto concreto e fondamentale, come quella di un dipendente di Weinstein che, sempre più turbato da quello che aveva avuto modo di osservare negli anni, mai reso noto in precedenza, ha avuto un ruolo determinante nel consentire di smascherare il suo capo.
La difficoltà di essere credute
Per chi ama scrivere e investigare, Anche io è un testo rilevante. “Questa è una storia che parla anche di giornalismo investigativo, a cominciare dai primi incerti giorni della nostra indagine, quando avevamo ancora poche informazioni e quasi nessuno era disposto a parlare con noi”, sottolineano le due autrici, ricordandoci quanto sia difficile, a volte, cominciare a smuovere le acque, ma, allo stesso tempo, quanto siano imprescindibili quei primi passi.
Molte delle vittime che nonostante tutto vollero parlare si ritrovarono di fronte a un muro di diffidenza, scetticismo, giudizio. Il titolo originario del libro, She Said, fa riferimento alla locuzione utilizzata quando ci si trova davanti a due versioni conflittuali della stessa vicenda, espressione usata in particolare per identificare le situazioni in cui una donna accusa un uomo di abusi, ma non ha prove né testimoni a sostegno della sua versione.
Pure le due croniste dovettero superare la difficoltà di essere credute. Avere caporedattori e direttori che danno fiducia e supportano può fare un’enorme differenza.
“Raccontiamo di come siamo riuscite a carpire segreti, ottenere informazioni, accertare la verità su un uomo di potere nonostante i suoi numerosi tentativi di sabotare le indagini. Abbiamo anche, per la prima volta, descritto il nostro ultimo incontro con il celebre produttore negli uffici del New York Times alla vigilia della pubblicazione, quando capì di essere in trappola.
La nostra indagine su Weinstein avvenne nel periodo in cui si cominciò a parlare di fake news, e l’idea stessa che possa esistere un consenso collettivo su quale sia la verità pareva essere irrimediabilmente in crisi. Ma l’impatto delle rivelazioni su Weinstein fu così grande anche perché noi e gli altri giornalisti fummo capaci di mettere insieme una quantità di prove schiaccianti della sua colpevolezza”.
Nuovi paradigmi e regole da riscrivere
Nel libro, infine, le giornaliste spiegano come siano riuscite a documentare il suo schema di comportamento basandosi su testimonianze dirette, documenti legali e finanziari, memorandum aziendali e altri materiali probatori.
“Gran parte di questo materiale inedito serve a illustrare come il sistema legale e la cultura organizzativa prevalente abbiano avuto un ruolo nel mettere a tacere le vittime e come ancora oggi ostacolino il cambiamento.
Le aziende proteggono i predatori sessuali e coloro che dovrebbero difendere le donne traggono profitti da un sistema di accordi privati che garantisce l’impunità dei colpevoli. Anche quelli che intravedono il problema – come Bob Weinstein, fratello e socio in affari di Harvey, che ha concesso diverse interviste per questo libro – spesso non fanno quasi nulla per risolverlo”.
Il movimento #MeToo – rimarcano ancora le scrittrici – è l’esempio di un significativo cambiamento sociale del nostro mondo e della nostra epoca, ma è anche il suo banco di prova. Più che arrivare a una conclusione, si riparte con un nuovo interrogativo: “In una realtà piena di conflitti come la nostra, saremo capaci di scrivere insieme un nuovo sistema di regole e tutele che sia giusto per tutti?”.
Foto di copertina di Gerd Altmann da Pixabay
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