di Cristina Penco. Un libro appassionante scritto a quattro mani e una mostra sui luoghi misteriosi dell’antichità.
Quanta emozione, gioia, incredulità e soddisfazione devono aver provato gli autori di scoperte epocali? Chissà quali altre sensazioni, in tutte le loro sfumature, hanno accompagnato certi ritrovamenti mozzafiato, che peraltro hanno aperto ulteriori interrogativi. Ed è anche in questo che risiede il fascino di luoghi e strane costruzioni appartenenti all’antichità, a un tempo remoto di cui nessuno può conservare memoria. E dove la ricerca scientifica – l’unica, comunque, che finora ha dato alcune importanti risposte – arriva solo fino a un certo punto.


Nell’Atlante dei luoghi misteriosi dell’antichità (Bompiani) l’illustratore Francesco Bongiorni e lo scrittore e divulgatore Massimo Polidoro, un esperto nel campo del mistero e della psicologia dell’insolito, raccolgono aneddoti, luci e ombre intorno ai più celebri enigmi millenari di tutti i continenti.
Il più delle volte si è trattato di scommesse vinte da pionieri e avventurieri che sono andati contro ogni aspettativa nefasta. Ne valeva la pena. Vediamo le più interessanti.
La maledizione della tomba di Tutankhamon
Cento anni fa, nel novembre 1922, nella Valle dei Re, in Egitto, un gruppo di archeologi guidati da Howard Carter e sovvenzionati da lord Carnarvon, il conte George Herbert, aprirono una breccia nella stanza che nascondeva il mausoleo di Tutankhamon. Il sepolcro del “faraone bambino”, appartenente alla XVIII dinastia, nonché il suo sontuoso corredo funebre, diedero vita a uno degli eventi più conosciuti e significativi dell’egittologia.


Qualche mese dopo, “all’1.55 del 4 aprile 1923, tutte le luci del Cairo si spensero”. Non solo. “In quel preciso momento», scrivono gli autori “Lord Carnarvon morì di polmonite”.
Facciamo qualche passo indietro. Herbert, che si trovava in Egitto dal 1908 nella speranza che il clima asciutto alleviasse i suoi problemi respiratori, era appassionato di archeologia. Il conte, che aveva deciso di finanziare la più grande caccia al tesoro di tutti i tempi, individuò nel giovane Carter l’esperto di scavi che potesse condurre con Cairo. successo un efficace programma di ricerca.
Carter tentò per quindici anni di dissotterrare i resti di Tutankhamon. Nella Valle dei Re erano state rinvenute alcune testimonianze ben precise che sembravano ricollegare direttamente il nome del “faraone dimenticato” a un particolare punto di quella zona. Infine ci riuscì, contro ogni previsione e con buona pace del suo committente. Secondo il mito, però, chiunque avesse violato quel luogo sacro sarebbe stato colpito da una maledizione fatale…
Gli antichi fasti di Tebe

A proposito di Antico Egitto, che dire di Luxor, che sorge sull’antica Tebe, la capitale dei faraoni nel loro periodo d’oro, dal XVI all’XI secolo a.C.? Il sito è caratterizzato da misteriose sfingi piccole e allineate criocefale (col corpo di un leone e con la testa di ariete, a simboleggiare, rispettivamente, la forza dell’uno e l’ardore dell’altro). Di quelle sculture, che segnano l’ingresso al tempio oggi restano solo, ma perfettamente conservati, i colonnati, alcune sale e parte del santuario. Ma, al di là del significato emblematico, avevano anche qualche funzione specifica?
“Tebe dalle mille porte” fu anche il regno della sovrana Hatshepsut, quinta monarca della XVIII dinastia, che dominò gli egiziani tra il 1479 e il 1458 a.C. È in qualche modo merito suo – come segnalano Bongiorni e Polidoro – se studiosi e viaggiatori si interrogano da secoli su un inafferrabile luogo detto “Terra di Punt”.
In realtà si tratta di un posto citato più volte nel corso di duemila anni di storia egizia. La prima indicazione risale al 2450 a.C. nella “Pietra di Palermo”, una tavoletta di pietra incisa chiamata così per la città in cui è conservata, dove si dice che il faraone Sahura inviò a Punt una spedizione che tornò con 80.000 misure di mirra, importante per i rituali religiosi, e ancora 23.030 pertiche di legname e 6000 misure di elettro, una lega d’oro che conteneva circa il 20 percento d’argento.
Altri riferimenti successivi fecero menzione di carichi di “134 schiavi, maschi e femmine, 114 fra buoi e vitelli; 305 tori… avorio, ebano, pelli di pantera… ogni cosa buona di quel paese e il raccolto del luogo”.
Un altro ancora fece cenno alla cattura di un “nano che balla per il dio della terra degli spiriti”: forse si trattava di un pigmeo, catturato per la sua curiosa statura.
Fu però nei bassorilievi sulle pareti del tempio dedicato a Hatshepsut, a Deir el-Bahari, vicino a Luxor, che gli archeologi trovarono il più antico viaggio oltre i confini del mondo mai documentato. Nell’impresa, voluta dalla regina nel nono anno del suo regno proprio per raggiungere la favolosa Terra di Punt, fu impiegata una flotta di cinque navi egizie che discese il mar Rosso. Sulle rive di quest’ultimo, presso Mersa Gawasis, fu ritrovata una delle grandi imbarcazioni della regina: significativa testimonianza che attestò che gli egizi non erano solo “marinai di fiume”, come si era creduto per molto tempo, ma si spinsero ripetutamente lungo le coste africane.
La scoperta di Petra, la Città Rossa

Avete mai sentito parlare dello svizzero Johann Ludwig Burckhardt? Nel 1809, poco più che ventenne, ottenne il beneplacito della londinese African Association di esplorare l’Africa del Nord per risalire il fiume Niger e localizzare la misteriosa città di Timbuctù. Nel 1812, “travestito da arabo, accompagnato da beduini diffidenti che lo ritenevano un mago infedele”, si avventurò nel deserto giordano in un’impresa molto rischiosa, soprattutto quando si imbatté in una gola angusta, quasi buia. Ma fu lì che, all’improvviso, dalle rocce e dall’oblio dei secoli, riemerse Petra, la ricca e raffinata città dei Nabatei, scolpita nella roccia rossa.
Una leggenda voleva che in quel leggendario insediamento si trovasse il “sesamo” che Alì Babà aveva il potere di aprire.
Un’altra raccontava di un faraone egizio, impegnato a combattere gli israeliti, che nascose nell’antica città le proprie ricchezze, come spiegano gli autori. Altro che luogo della fantasia, come si era pensato a lungo! Racchiusa tra le montagne del Wadi Musa, nella regione pietrosa che i romani chiamavano Arabia Petrea, Petra era stata costruita per controllare le rotte commerciali di incenso, mirra e spezie tra Oriente e Occidente. Il regno dei Nabatei, protetto dalle montagne, durò 500 anni e rimase inespugnabile fino alla conquista dei Romani.
Poi Petra rimase nell’ombra per secoli fino a centodieci anni fa. Da allora è uno dei siti archeologici più visitati del pianeta, una delle sette meraviglie del mondo, tutelata dall’Unesco: vi si accede a cavallo o a dorso d’asino fino all’imbocco del Siq, attraversando un canyon d’arenaria modellato dai venti. Per un tratto si prosegue a piedi tra pareti alte fino a 200 metri, fino al “tesoro del faraone”, il celebre monumento dalla facciata scolpita, e al monastero, tra templi e tombe. Spettacolare la visita al tramonto, quando i monumenti archeologici si colorano di rosso, e di sera, con l’illuminazione delle fiaccole. Simbolo della città è l’antica tomba di Aretas III, con figure della divinità e della mitologia, anch’essa scavata nella roccia.
Perché è stato costruito Stonehenge?

In Inghilterra, nella provincia inglese dello Wiltshire, a nord di Salisbury, sorge Stonehenge, un complesso megalitico di pietre sarsen, che risalirebbe ai tempi di transizione dalla civiltà eneolitica a quella del Bronzo. Il sito è composto da una fossa circolare, a cui conduce un viale, fiancheggiato da un terrapieno che circonda alcuni anelli concentrici.
Questi ultimi, formati da lastroni, intervallati tra loro, sono posti “a coltello”. Il penultimo circolo è costituito da 5 enormi triliti e racchiude quello che probabilmente era un altare. Intorno a questa costruzione, per un raggio di 4 km, si sono trovati 306 tumuli tombali dell’età neoeneolitica. Sappiamo più o meno quando è stato costruito il complesso, ossia circa 5.000 anni fa, ma non siamo ancora certi del perché esso sia stato realizzato e dunque delle sue funzioni originarie.
“Una sorta di cattedrale, un luogo sacro ritenuto miracoloso, forse un osservatorio astronomico o forse tutte queste cose insieme”, ipotizzano Bongiorni e Polidoro. In uno studio pubblicato sulla rivista Antiquity l’archeologo britannico Timothy Darvill, che insegna all’Università di Bournemouth, sostiene che Stonehenge fosse un antico calendario solare perpetuo, che aiutava gli abitanti del luogo a tenere traccia dei giorni, delle settimane e dei mesi.
Sottolineano gli autori dell’Atlante dei luoghi misteriosi dell’antichità: “Ciò che è sicuro è che gli enormi monoliti provenivano da cave distanti centinaia di chilometri, ma che cosa spinse circa cinquemila anni fa gli abitanti della zona a sobbarcarsi quell’immane fatica?”. Interrogativo, il loro e il nostro, che ancora adesso è privo di una risposta definitiva.
Dalle caverne di Lascaux ai Moai dell’Isola di Pasqua

Sono datate all’incirca tra i 18.000 e i 17.000 anni fa le pitture rupestri nelle caverne di Lascaux, in Francia, dove un trionfo di animali colorati ricopre le pareti. In particolare, ce ne sono circa un migliaio in quella che venne chiamata la “Cappella Sistina della preistoria”.
“Se immaginiamo gli uomini di Cro-Magnon che ne furono artefici, alle prese ogni giorno con il problema della sopravvivenza in un ambiente ostile”, suggeriscono gli studiosi, “l’ultima cosa che ci viene da pensare è che fossero mossi da preoccupazioni di tipo estetico o artistico. Se poi scopriamo che in quelle grotte è quasi sicuro che nessuno visse mai, se non i pittori per il tempo che fu loro necessario per realizzare quei disegni, diventa ancora più difficile capire il significato o l’utilità di quelle pitture”.
Ma pensiamo pure ai geoglifi, ossia i disegni, antichi di secoli o millenni, realizzati sul terreno incidendo, scavando o scolpendo la pietra. I più noti, forse, sono quelli della piana di Nazca, in Perù; in realtà ce ne sono a migliaia e sono diffusi un po’ ovunque in tutto il pianeta. Qual era esattamente il loro scopo? Tra l’altro, di solito, si trovano su superfici pianeggianti, per cui per essere notati e “letti”, occorreva una visione dall’alto: erano destinati solo ad alcuni e non a tutti? E chi erano, nel caso, i destinatari prescelti?

Ad affascinare milioni di persone a ogni latitudine e longitudine, oggi, sono anche i Moai dell’Isola di Pasqua: circa mille gigantesche statue di pietra scolpita di 5 metri di altezza media per 14 tonnellate ciascuna, distribuite in un remoto puntino perso nell’oceano. Costruirle deve aver comportato un grande dispendio di energie e risorse. Con quale finalità?
Non finiscono certo qui le domande sollevate da ciascun luogo e artefatto carico di mistero passato in rassegna da Bongiorni e Polidori. Tutt’altro. In questa sede, naturalmente, abbiamo dato solo un piccolo assaggio dei numerosi casi considerati; nel loro volume se ne trovano davvero tanti altri. Si finisce la lettura avvolti da forti suggestioni, con la voglia di saperne di più e, forse, con un’unica certezza tra tanti dubbi: “Inseguire misteri e tentare di trovare a essi risposte è un’avventura che ci permette ogni volta di ampliare un po’ di più il perimetro di ciò che sappiamo o che crediamo di sapere sul mondo che ci circonda”.
Lo stupore di fronte alle cose, la capacità di lasciarsi sorprendere, da sempre temi cari alla filosofia occidentale, caratterizzano la mostra “Forme per contemplare l’inenarrabile”, grande progetto di Francesco Bongiorni con le opere realizzate per Atlante dei luoghi misteriosi d’Italia (2018) e Atlante dei luoghi misteriosi dell’antichità (2020), entrambi scritti a quattro mani con Massimo Polidoro. La mostra, a cura di Christine Enrile e Rebecca Piva, è visitabile fino al 28/02/2023 presso la galleria C|E Contemporary, in via Gerolamo Tiraboschi 2, a Milano.
Foto di copertina di 🌼Christel🌼 da Pixabay
Autori: Massimo Polidoro; Francesco Bongiorni
Titolo: Atlante dei luoghi misteriosi dell’antichità
Editore: Bompiani
Anno: 2020
ISBN 9788830102194
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