di Lafcadio Hearn. Storia di Hamaguchi, un vecchio che salva il suo paese con uno stratagemma.
Da tempo immemorabile le coste del Giappone sono state spazzate, a irregolari intervalli di secoli, da enormi onde di marea, causate da terremoti o dall’azione vulcanica sottomarina. Questi tremendi e subitanei innalzamenti del mare sono chiamati dai giapponesi tsunami. L’ultimo si verificò la sera del 17 giugno 1896, quando un’onda lunga più di trecento chilometri colpì le province nordorientali di Miyagi, Iwate e Aomori, sommergendo diverse città e villaggi, danneggiando interi distretti e distruggendo quasi trentamila vite umane. La storia di Hamaguchi Gohei è quella di una simile calamità avvenuta molto tempo prima dell’era Meiji su un’altra zona della costa giapponese.

Era vecchio quando accadde il fatto che lo rese famoso. Era il più autorevole residente del villaggio al quale apparteneva: era stato per molti anni il suo muraosa, o capo; ed era non meno amato che rispettato. Il popolo solitamente lo chiamava Ojiisan, che significa nonno; ma essendo il più ricco membro della comunità, talvolta veniva ufficialmente chiamato chōja. Dispensava consigli ai contadini più umili riguardo ai loro interessi, faceva da arbitro nelle loro dispute, anticipava loro il denaro in caso di bisogno, e vendeva per essi il riso alle migliori condizioni possibili.
Il grande casolare con il tetto di paglia di Hamaguchi era sul limitare di un piccolo pianoro sovrastante una baia. Il pianoro, perlopiù coltivato a riso, era circondato su tre lati da cime fittamente alberate. Dal suo limite esterno il terreno declinava in una grande concavità verde, come scavata fino all’orlo dell’acqua; e l’intero pendio, lungo più di un chilo- metro, era terrazzato al punto da sembrare, quando lo si vedeva dal mare, un’enorme fuga di gradini verdi, spaccata al centro da uno stretto zig-zag bianco: la traccia di una strada di montagna. Novanta capanne e un tempio shintō, che componevano il villaggio vero e proprio, si ergevano lungo la curva della baia; e altre case si arrampicavano disordinatamente per un certo tratto del pendio su entrambi i lati della stretta via che conduceva alla dimora del chōja.
Una sera d’autunno Hamaguchi Gohei stava osservando dal balcone della sua casa i preparativi per una festa nel villaggio sottostante. C’era stato un eccellente raccolto di riso, e i contadini si apprestavano a celebrarlo con una danza nel cortile dell’ujigami. Il vecchio poteva vedere le bandiere da festa (nobori) sventolare sui tetti della via solitaria, le file di lanterne di carta sospese tra pali di bambù, le lo splendido raduno variopinto della gioventù. Accanto a lui quella sera c’era solo il suo giovane nipote, un ragazzino di dieci anni; il resto della famiglia era andato di buon’ora al villaggio. Li avrebbe accompagnati se non si fosse sentito meno in forze del solito.

La giornata era stata opprimente e, malgrado una brezza crescente, c’era ancora nell’aria quella specie di calore pesante che, stando all’esperienza dei contadini giapponesi, in alcune stagioni precede un terremoto.
E di lì a breve un terremoto arrivò. Non fu abbastanza forte da spaventare la gente; ma Hamaguchi, che aveva sentito centinaia di scosse nella sua vita, pensò che fosse strano – un moto lungo, lento, molle. Probabilmente era il tremore successivo a qualche immensa azione sismica molto lontana. La casa scricchiolò e barcollò parecchie volte, poi tutto tornò tranquillo come prima.
Non appena la scossa cessò, gli occhi acuti del vecchio si volsero ansiosi verso il villaggio. Accade sovente che l’attenzione di chi fissa un punto o un oggetto particolare sia d’un tratto sviata da qualcosa di non osservato intenzionalmente – da un mero, vago senso d’insolito in quell’opaca periferica sfera di percezione inconsapevole che sta al di là del campo della chiara visione. Fu così che Hamaguchi si accorse di qualcosa di inusuale al largo. Si alzò in piedi, e guardò il mare. Si era oscurato all’improvviso e si comportava in modo strano. Sembrava muoversi controvento. Fuggiva dalla terra. Nel giro di pochi istanti l’intero villaggio aveva notato il fenomeno. All’apparenza nessuno aveva avvertito la precedente scossa della terra, ma tutti erano evidentemente sorpresi dal movimento dell’acqua. Stavano correndo alla spiaggia, e anche oltre, per guardare. Nessuno, a memoria d’uomo, era mai stato testimone di un simile riflusso su quella costa. Apparivano cose mai viste prima; inconsueti spazi di sabbia ondulati e tratti di rocce coperte di alghe venivano messi a nudo sotto lo sguardo di Hamaguchi. E nessuna delle per- sone sottostanti sembrava immaginare ciò che quel mostruoso riflusso significava.
Lo stesso Hamaguchi Gohei non aveva mai visto niente del genere, ma ricordava cose raccontate nella sua infanzia dal padre di suo padre, e conosceva tutte le tradizioni della costa. Hamaguchi comprese ciò che il mare stava per fare.
Forse pensò al tempo che occorreva per mandare un messaggio al villaggio o per indurre il monaco del tempio buddhista sulla collina a suonare la sua grande campana… Ma ci avrebbe messo di più a esporre ciò che aveva pensato di quanto ci aveva messo a pensarlo. Gridò semplicemente a suo nipote: «Tada! Presto, presto!… Accendimi una torcia».
Le taimatsu, o torce di pino, sono conservate in molte abi- tazioni della costa per essere usate nelle notti tempestose, o anche in alcune feste shintō. Il ragazzo accese immediata- mente la torcia, e con essa il vecchio corse verso nei campi, dove centinaia di covoni di riso, che costituivano la maggior parte del suo capitale investito, aspettavano il trasporto. Accostandosi a quelli più vicini al ciglio del pendio, cominciò ad appiccarvi il fuoco, correndo dall’uno all’altro quanto più veloce le sue vecchie membra gli consentivano. Le stoppie seccate al sole presero fuoco come l’esca; la rinforzata brezza marina soffiò le fiamme verso terra; e subito, fila dopo fila, i covoni si incendiarono, mandando verso il cielo colonne di fumo che si univano e si mescolavano in un enorme turbine caliginoso. Tada, attonito e terrorizzato, correva dietro suo nonno, gridando: «Ojiisan!, perché? Ojiisan!, perché? perché?».
Ma Hamaguchi non rispondeva, non aveva tempo per spiegare, pensava soltanto alle quattrocento vite in pericolo. Per un istante il fanciullo fissò con sguardo folle il riso in fiamme, poi scoppiò in lacrime, e corse a casa sicuro che suo zio fosse impazzito. Hamaguchi incendiava un covone dopo l’altro, finché raggiunse i confini del suo campo; allora gettò a terra la torcia e attese. L’accolito del tempio sulla collina, vedendo le fiamme, suonò la grande campana, e gli abitanti risposero al doppio appello. Hamaguchi li vide accorrere dalle sabbie, dalla spiaggia e su dal villaggio come uno sciame di formiche, a malapena più veloci ai suoi occhi ansiosi, tanto quegli istanti gli sembrarono terribilmente lunghi. Il sole stava per tramontare: il rugoso letto della baia e, al di là di essa, una vasta distesa giallastra e maculata giacevano nudi nell’ultimo bagliore arancione; e ancora il mare rifluiva verso l’orizzonte.
In realtà, Hamaguchi non dovette aspettare molto prima che l’avanguardia dei soccorsi arrivasse – una ventina di agili giovani contadini che volevano spegnere il fuoco immediata- mente. Ma il chōja, allargando le braccia, li fermò. «Lasciate bruciare, ragazzi!» comandò. «Lasciate! Voglio qui tutto il mura. C’è un grande pericolo – taihen da!»
L’intero villaggio stava accorrendo, e Hamaguchi contava. Tutti i giovani e i bambini furono ben presto sul posto, e non poche tra le donne e le ragazze più attive; poi giunsero la maggior parte dei vecchi, madri con neonati sul dorso e anche i bambini, perché aiutassero a passare l’acqua; e i più anziani, troppo deboli per tenere il passo dei primi arrivati, erano ben visibili sulla ripida salita. La moltitudine crescente, ancora ignara di tutto, guardava alternativamente, con doloroso stupore, i campi in fiamme e il volto impassi- bile del suo chōja. E il sole tramontò.
«Il nonno è matto, ho paura di lui!» diceva Tada, singhiozzando, in risposta alle numerose domande. «È matto. Ha dato fuoco al riso di proposito: l’ho visto!»
«In quanto al riso,» gridò Hamaguchi «il ragazzo dice la verità. Ho dato fuoco al riso… È qui tutta la gente?»
Il kumichō e i capifamiglia guardarono intorno e giù dalla collina, e risposero: «Sono tutti qui, o tra poco lo saranno… Non riusciamo a comprendere questa cosa».
«Kita!» strillò il vecchio a piena voce, indicando il largo. «Dite ora se sono pazzo!»
Tutti guardarono in direzione del crepuscolo e videro, al limitare del buio orizzonte, una scura, lunga e sottile linea simile all’ombra di una costa dove nessuna costa c’era mai stata, una linea che si ispessiva a vista, che si allargava come il profilo della costa all’occhio di colui che vi si avvicina, ma molto più rapidamente. Perché quella lunga oscurità era il mare che faceva ritorno, torreggiante come una rupe e più rapido del nibbio.

«Tsunami!» gridò il popolo; e allora tutte le grida, tutti i suoni e tutte le facoltà di udirli furono annichiliti da un indicibile colpo, più potente di qualunque tuono, quando l’onda colossale si abbatté sulla costa con un peso che fece tremare le colline e con un’esplosione di schiuma simile al divampare di un lampo diffuso. Allora, per un istante, non si vide altro che una tempesta di spruzzi slanciarsi sul pendio come una nuvola; e alla semplice minaccia la gente indietreggiò nel panico. Quando guardarono di nuovo, videro un bianco orrore di mare infuriare sul luogo delle loro case. Poi si ritirò ruggendo e squarciando le viscere della terra. Due, tre, cinque volte il mare percosse e rifluì, ma ogni volta con mi- nore impeto: poi ritornò nell’antico alveo e vi rimase, ancora furente, come dopo un tifone.
Sul pianoro per qualche tempo non fu pronunciata parola. Tutti fissavano in silenzio la desolazione sottostante, l’orrore delle rocce sbalzate e della nuda scogliera frantumata, il caos delle alghe sollevate dalle profondità marine e dei ciottoli scagliati sul sito svuotato delle case e del tempio. Il villaggio non c’era più; la maggior parte dei campi non c’era più; anche i terrazzamenti avevano cessato di esistere; e di tutte le case intorno alla baia non rimaneva nulla di riconosci-bile all’infuori di due tetti di paglia lanciati furiosamente al largo. Il terrore retrospettivo della morte scampata e la stupefazione della perdita generale avevano ammutolito tutte le bocche, finché si sentì di nuovo la voce di Hamaguchi, che osservava gentilmente: «Per questo ho dato fuoco al riso». Lui, il loro chōja, ora stava in mezzo a essi quasi come il più povero dei poveri; perché la sua ricchezza era svanita, ma lui aveva salvato quattrocento vite con il sacrificio.
Il piccolo Tada corse da lui, prese la sua mano e chiese perdono per aver detto cose cattive. A quel punto le persone compresero perché fossero vive, e cominciarono a stupirsi della semplice, disinteressata lungimiranza che le aveva salvate; i capi si prostrarono nella polvere di fronte ad Hama- guchi Gohei, e il popolo dietro di essi.
Poi il vecchio pianse un poco, in parte perché era felice, in parte perché era anziano, debole e molto provato.
«La mia casa c’è ancora,» disse appena poté trovare le parole, accarezzando meccanicamente le guance brune di Tada «e là c’è spazio per molti. Resta anche il tempio sulla collina; e là c’è ricovero per gli altri.» Poi prese la via di casa, mentre il popolo piangeva e gridava.

Il periodo di difficoltà fu lungo, perché a quei tempi non c’erano mezzi di rapida comunicazione tra distretto e distretto, e l’aiuto richiesto doveva essere inviato da molto lontano. Ma quando giunsero tempi migliori, il popolo non dimenticò il suo debito verso Hamaguchi Gohei. Gli abitanti del villaggio non potevano farlo ricco; né egli l’avrebbe permesso, anche se fosse stato possibile. Oltretutto, i doni non sarebbero stati sufficienti a esprimere il loro sentimento di riverenza verso di lui, perché credevano che lo spirito dentro di lui fosse divino.
Così lo dichiararono dio, e da quel momento lo chiamarono Hamaguchi Daimyōjin, pensando che non potessero fargli un onore più grande; e davvero, in qualunque Paese, nessun onore più grande potrebbe essere fatto a uomo mortale. E quando ricostruirono il villaggio, edificarono un tempio al suo spirito, fissando sul fronte una tavoletta con il suo nome in caratteri cinesi d’oro; e là lo adorarono con offerte e preghiere. Che cosa lui ne pensasse, io non saprei dire; so solamente che continuò a vivere nella sua vecchia casa dal tetto di paglia sulla collina, con i suoi figli e i figli dei figli, con la stessa umanità e semplicità di prima, mentre la sua anima era venerata nel tempio sottostante. Egli è morto da più di cent’anni, ma il suo tempio, mi dicono, esiste ancora, e la gente prega ancora lo spirito del buon vecchio contadino perché l’assista in tempo di paura o di difficoltà.
Domandai a un filosofo e amico giapponese di spiegarmi come i contadini potessero razionalmente immaginare lo spirito di Hamaguchi in un luogo, mentre il suo corpo vivente era in un altro. Chiesi anche se quella che avevano adorata durante la sua vita fosse solo una delle sue anime, e se essi immaginavano che quella particolare anima si fosse staccata dalle restanti per ricevere omaggio.
«I contadini» rispose il mio amico «pensano alla mente o allo spirito di una persona come a qualcosa che, anche durante la vita, può trovarsi in molti luoghi nello stesso momento… Tale idea è quindi del tutto differente da quella occidentale sull’anima.»
«Molto più razionale?» chiesi maliziosamente.
«Beh,» rispose con un sorriso buddhista «se accettiamo la dottrina dell’unità di ogni mente, l’idea del contadino giap- ponese sembrerebbe contenere almeno qualche parvenza di verità. Non potrei dire lo stesso delle vostre nozioni occidentali sull’anima.»
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