di Massimo Bongini. Il racconto di memorie di giganti, di strani fenomeni luminosi e di antiche civiltà.
Sardegna, vacanze d’Agosto 2009.

Si dice che su di un altopiano nella regione delle giare dell’alto Campidano ci siano i resti di una antichissima città perduta, centro di una civiltà che molti millenni fa fu fecondata dalla conoscenza di giganti venuti da un altrove e che moltissimi resti ritrovati dagli abitanti siano stati occultati e sequestrati addirittura dall’esercito e poi negati per omertà o intimidazione.
Mitomania e mistificazione? Oppure una testimonianza che rimanda a una antichissima realtà storica tramandata nei millenni solo oralmente e in netta contraddizione coi testi accademici?
Conoscendo abbastanza bene quest’isola, la sua cultura e la sua gente credo che la verità si trovi quantomeno nel mezzo.
Ma tra le due la seconda ipotesi mi sembra ancora oggi la più probabile: il confronto tra mito e storia, tradizione popolare e versione ufficiale, non è mai così scontato.
Luigi e la ricerca della verità sui giganti
Luigi aveva gli occhi lucidi mentre ci parlava delle sue battaglie per ottenere verità, mentre ricordava di quando suo nonno lo portava a cavallo sull’altura dei templi a pregare il Sole o nei pozzi sacri a onorare Luna e Stelle, come altri suoi coetanei erano soliti fare allora. In quei luoghi c’era quanto rimaneva dal passaggio dell’“onda” che molti millenni fa sommerse parte dell’isola.
Raccontava poi che successivamente fu testimone di sistematici interventi distruttivi di estranei arrivati da non si sa dove con ingenti mezzi con la connivenza delle amministrazioni locali e delle forze dell’ordine; ma vide anche l’incuria e l’indolenza degli stessi suoi compaesani che condannarono al degrado e alla quasi totale scomparsa ciò che rimaneva dei monumenti megalitici che abbondavano nella zona.
Mi si strinse il cuore quando quell’estate mi condusse lassù con alcuni amici comuni. C’era ancora una vitalità straordinaria, nonostante l’apparente desolazione. Nell’aria c’era qualcosa di sospeso, come l’eco lontana di una grande animazione, un movimento tra terra e cielo e tra cielo e terra, una memoria vivissima che risvegliava ricordi atavici.
Più a valle, tra le ampie pianure di bonifica coltivate a cereali, un tempo paludi residue di un mare ormai ritirato, sembrava di scorgere ancora i canali concentrici di cui parlano alcuni anziani, percorsi che conducevano al mare esterno grandi navi mosse da un’energia sconosciuta che permetteva loro di solcare gli oceani, e di cui si dice siano stati rinvenuti grossi anelli metallici di attracco a ridosso di pareti rocciose.
Razze evolute provenienti dalle stelle

Luigi ricordava che il nome del suo paese in sardo significa “palude dell’acqua dei re”. E che c’è un luogo che da sempre la gente chiama “la piana degli Aztechi”.
Prima che i grandi acquitrini del campidano venissero bonificati quasi un secolo fa, si usavano imbarcazioni di canne come i Fassonis ancora oggi visibili a San Giovanni Sinis, sullo stagno di Santa Giusta, che sono molto simili a quelle usate tuttora sul lago Titicaca, tra Perù e Bolivia. Coincidenze?
Andai con la memoria ad alcuni dei testi di Peter Kolosimo e Erik Von Daniken che avevo letto nella mia adolescenza, che elencavano i miti di molte e diverse culture del mondo in cui si narra di razze più evolute provenienti dalle stelle che avevano portato civiltà, tecnologia e sviluppo sociale, ma non ricordavo proprio qualcosa che provenisse dal nostro mediterraneo.
I Giganti, antenati dei sardi?

Ben presto mi resi conto che ciò che raccontava Luigi non era solo frutto della sua esperienza o visione ma era condiviso da una buona parte della sua comunità, che conserva e tramanda oralmente storie e ricordi della tradizione, com’è in uso da sempre nella civiltà sarda. I protagonisti di questi racconti sono chiamati “i Giganti”, che la gente del luogo considera come propri antenati.
Secondo le testimonianze i corpi mummificati di questi umanoidi (altezza molto oltre la media, crani talvolta più allungati, mani con un sesto dito, ecc.) iniziarono a riemergere numerosi quando, dopo le bonifiche degli anni ‘50-‘60, i trattori permisero di scalzare il suolo più in profondità. Si parla di decine e decine di ritrovamenti di tombe con scheletri e mummie ancora in buono stato circondati spesso da oggetti.
Ma prima che la gente iniziasse a rendersi conto della straordinarietà di quei reperti, o i tombaroli o non ben identificate squadre in divisa con tanto di elicotteri e protezione militare, riuscirono a cancellarne le tracce più significative.
Ma i misteri non finiscono qui.
Stelle che si fermano o seguono traiettoie irregolari

Nei racconti di paesani più o meno attempati, ricorrono sempre insoliti fenomeni luminosi molto diversificati che li hanno accompagnati fin da bambini. E qui veniamo all’attrazione più speciale degli ultimi due decenni in questa parte dell’isola, che ho potuto sperimentare di persona numerose volte, in special modo in quel luogo ma negli anni successivi anche altrove in Sardegna: luci notturne inspiegabili simili a stelle che non sono né aerei né satelliti, che appaiono in movimento mentre seguono una traiettoria irregolare, talvolta zigzagando, talvolta fermandosi o sparendo all’improvviso o ingrandendosi con un fortissimo flash.
Passano aerei su quella rotta, anche militari, passano satelliti e d’estate molte stelle cadenti, tutto facilmente identificabile. Ma questa è tutt’altra cosa. C’è traffico di questi oggetti speciali come se fossimo sopra un aeroporto. Alcuni amici che hanno frequentato a lungo il cortile di Luigi mi hanno confidato di aver avuto anche incontri più ravvicinati con luci (livello terra a pochi metri) e con presenze percepite attraverso vibrazioni, odori, rumori, passi, ombre, sfioramenti.
Un uomo aperto agli spazi infiniti

Una sera di quell’estate Luigi mi scrutò come a valutarmi e poi mi disse: «Lo so che vorresti chiedermi di più. Io vivo qui da sempre e ne ho viste molte ma è difficile parlare di certe cose, già ti prendono per matto solo se parli di luci anomale. Figurati se parlo di incontri, di voci, di messaggi telepatici, di sagome umane o animali. Se vuoi la mia impressione, sembra che dominino lo spazio e il tempo. È come se si muovessero attraverso le dimensioni.
Io voglio credere che siano i nostri antenati. Da bambino quando ho visto la mia prima mummia le sono rimasto abbracciato a lungo, piangendo, come avessi ritrovato un antico padre. Forse ci stanno preparando a poco a poco ad un ritorno. Chissà…» .
È un uomo semplice Luigi, cresciuto come pastore e poi trasportatore. La sua schiettezza e la modesta cultura lo portano ad esprimersi troppo direttamente, manca di diplomazia e prudenza, e finisce a volte per farsi bollare come svalvolato, opportunista, truffatore. Per la sua ingenuità è finito anche nelle mani di giornalisti e media che hanno approfittato di lui, quando non per ridicolizzarlo, almeno per fare un po’ di salotto o di vano clamore.
Ma se pure era l’unico deciso ad esporsi, non era il solo a “sbottonarsi” all’occorrenza. Conobbi altri due anziani del posto che confermarono molte delle sue informazioni, ma anche dagli amici che frequentavano il luogo in quegli anni seppi che erano in molti a conoscere quella realtà, anche se spesso sembravano restii a parlarne, anche per via di esplicite e dissuasive minacce ricevute.
Nel 2007 Luigi ebbe la grande idea di raccogliere in un libro le testimonianze di una ventina di paesani: una foto, il nome, qualche domanda e i ricordi personali. Un linguaggio grezzo, una storia folle, un libro scomodo, poche copie stampate in autoproduzione, molti ostacoli nella distribuzione, com’era immaginabile.
Non soddisfatto, trovò nella pittura e poi nella scultura della trachite un modo per continuare a esprimere e condividere il suo mondo e le sue esperienze. Le sue opere sono i giganti che vede o gli archetipi ad essi collegati, spiriti di pietra, figure ancestrali che sembrano vive.
L’ultimo giorno di quell’agosto mi portò di nuovo sull’altura e lì vidi altri resti di costruzioni che si trovavano tutte sulla grandissima cerchia esterna di quella che definiva “città antica”: tombe dei giganti, pozzi sacri, recinti litici, un imponente nuraghe complesso a nove torri e qualcosa di simile a una piramide in pietra a gradoni ricoperti di quarzo, che nei ricordi del Luigi bambino splendeva alla luce della luna, del sole e delle stelle.
L’antica civiltà preistorica e nuragica

Conoscevo bene l’immensa ricchezza di testimonianze dell’antico passato della civiltà preistorica e nuragica della Sardegna, e fui incredulo nel constatare la trascuratezza e l’abbandono di simili insoliti tesori.
Visitammo anche l’area che ancora oggi sulle piante catastali è indicata come quella “dell’ospedale”: un ospedale ufficialmente mai esistito ma ben noto a tutti perché ne riferisce “l’altra storia”.
Alcuni raccontano di scheletri rinvenuti in quel luogo che portavano segni di operazioni chirurgiche molto delicate ed avanzate.
Ci mettemmo a pulire le erbacce che oscuravano quella che Luigi chiamava “la tomba del Re”, mentre esprimeva tutta la sua amarezza, perché ogni volta che va lassù deve sopportare quella devastazione e quelle recinzioni della sovraintendenza che gli impediscono l’accesso.
«Ma ti rendi conto?», mi diceva, «un sardo e un etrusco insieme che puliscono a mano la tomba di un Re! E se ci beccano magari ci arrestano pure! Uno può andare al cimitero a portare fiori e pregare i nonni, ma già solo se ti avvicini qui sei guardato con sospetto! … Ci rubano il nostro passato.. ci rubano l’identità! … Lo fanno da secoli… Io sono tra gli ultimi che ha avuto la fortuna di crescere con questa storia abbastanza liberamente, un passato così sentito e vissuto nella mia famiglia e tra la mia gente che nessuno si sognava di metterlo in discussione, nemmeno quando a scuola si studiava tutt’altra versione”.
L’antica civiltà dei nuraghi
Da un’altura guardavamo quel che restava dell’enorme cerchia dei nuraghi. Non ci vuole molto a capire che non sono stati pastori o cacciatori a edificarli. Le mura in pietra disposte in circolo invitano a volgere lo sguardo in alto, verso il cielo. Il silenzio assoluto quando sei circondato da quella imponente massa sposta tutta la tua attenzione all’interno di te. Sono un riparo dai pensieri, dalle emozioni, dalle distrazioni terrene. Una camera del tempo verso altre vite e altri mondi. Una porta per le stelle, un ponte per l’anima.
È questo che ho sempre sentito nei nuraghi come nelle tombe dei giganti, nei pozzi sacri o nei circoli megalitici. Ero appena diciottenne quando misi piede in Sardegna e m’innamorai di questa terra, aspra e severa, bella e potente come una Grande Madre, che mi stregò, mi rapì, mi adottò. E iniziò a trasmettermi richiami atavici e a risvegliare ricordi lontanissimi.
Più che le luci, più che i racconti di Luigi sui Giganti e i legami con antiche civiltà stellari perdute, più che i racconti delle esperienze forti di alcuni amici, più di tutto questo, anche quella volta fu proprio il luogo in sé che mi colpì. Per oltre trent’anni ogni viaggio sull’isola era stato per me occasione di esplorazione e scoperta degli angoli più nascosti, testimonianze di un antico passato ma anche semplicemente luoghi naturali, boschi di alberi secolari, sorgenti, grotte, gole, cascate, capaci di trasmettere l’emozione di una natura vergine delle origini.
Il ricordo di un’identità perduta
Ma su quell’altopiano brullo e desolato, come scesi dall’auto il cuore iniziò a battere come quello di un bambino, eccitato e confuso di fronte a qualcosa di grandioso, invisibile e indefinito ma al tempo stesso intimo e familiare, il ricordo di un’identità perduta. Vagai un po’ cercando di capire, di cogliere qualcosa di comprensibile. Mi sentivo come sintonizzato su una stazione radio di cui percepivo solo tracce appena udibili, avvertivo qualcosa di simile al fruscìo di fondo di una frequenza nella coda di una trasmissione appena avvenuta, di qualcosa appena accaduto.
Ogni volta che ci ripenso mi sento ancora appeso a quel senso di gioia e di aspettativa, mista a dolore e malinconia per qualcosa di perduto. O forse ancora a venire.

I “segni” raccolti in quei giorni mi diedero ragione di mille interrogativi raccolti in molti anni tra i luoghi magici dell’isola. Non spiegazioni logiche o ricostruzioni storiche, niente di tecnico o intellettuale. Il mio approccio alla realtà si è sempre basato su dati sensoriali, empirici e irrazionali a me più congeniali che mi hanno aiutato a trattenere l’essenza delle mie esperienze, a concatenare i fatti e a seguire il filo di coincidenze e percezioni lasciando che il senso e l’insegnamento affiorasse da sé a poco a poco.
Non a caso i miei percorsi di ricerca interiore iniziati già dall’adolescenza mi hanno portato negli ultimi decenni a dedicarmi intensamente alla “via rossa”, il cammino spirituale dei nativi americani, portatore di un messaggio e di uno stile di vita così semplice e universale da adattarsi a qualsiasi radice antropologica e culturale.
E così, mentre camminavamo quel giorno tra le rovine, vedere due poiane volare nel cielo sopra l’antica città, e trovare lì a terra ai miei piedi due penne di rapace (oggetto rituale sacro alla cultura nativa in quanto mediatore tra noi e il Grande Spirito) fu come una chiamata, un dono e una conferma della straordinarietà che stavo vivendo in quel momento.
Non ne fui sorpreso perché avevo già imparato che i segni, se riconosciuti e accolti, sono un linguaggio dell’universo, codici di comunicazione che possono indicarci i nodi di una rete invisibile di connessioni e relazioni, rendere più efficaci e dinamici gli eventi interiori ed esteriori della nostra vita, risvegliare in noi la consapevolezza della realtà multidimensionale della nostra esistenza.
(Prima puntata – continua)
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