Il testamento di Hillman

L'ultimo contributo alla conoscenza dell'anima del grande analista junghiano

di Massimo Biecher.  “L’ultima immagine”, lo straordinario libro postumo di James Hillman, scritto con Silvia Ronchey.

Il testamento di HillmanPer noi, che amiamo rileggere i miti dell’antica Grecia in chiave della psicologia archetipica, un’occasione imperdibile è data da L’ultima immagine, il libro postumo di James Hillman scritto a quattro mani con Silvia Ronchey – saggista ed ordinaria di Civiltà bizantina nel Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di RomaTre – uscito nell’ottobre scorso.

Al di là della riconoscenza che proviamo per questo studioso  – grazie al quale abbiamo imparato che gli dei dell’antica Grecia condensano in sé quegli archetipi che secondo Platone costituirebbero le idee a fondamento dell’universo – Hillman è già entrato di fatto nel novero delle figure che nel XX secolo hanno lasciato una traccia indelebile nel campo di chi si dedica alla comprensione dell’animo umano.

Il suo contributo è risultato dirompente per una disciplina che negli anni ’70 era dominata dai filoni del comportamentismo, dalle neuroscienze o dalla psicologia cognitiva.
Studiando i processi mentali all’interno di una visione post-cartesiana, queste discipline riducevano il rapporto col paziente al dualismo corpo-mente finendo per negare l’esistenza di un’anima o al massimo, di confinarla nell’ambito delle religioni o delle filosofie.

L’anima e i suoi archetipi

James Hillman (1926-2011)

Al centro della psicoterapia e della filosofia di Hillmann c’è proprio lo studio dell’anima e di come essa si esprime attraverso gli archetipi che si manifestano attraverso i simboli, al contrario del linguaggio dove l’unità originale si definisce lessema e si manifesta mediante i cosiddetti segni.

Si tratta di un concetto la cui origine viene fatta risalire a filosofi come Platone o Pitagora e successivamente mutuato da Carl Jung, che avevano postulato l’esistenza di un mondo trascendente, chiamato Iperuranio.

Qui erano confinate queste idee prototipali che, oltre a contenere i modelli sia della realtà fenomenica che di quella soprannaturale, costituivano anche la materia prima dei processi psichici.

Gli archetipi, secondo la Re-visione della Psicologia di Hillman, sono pertanto “i modelli più profondi del funzionamento psichico, come le radici dell’anima che governano le prospettive attraverso cui vediamo noi stessi e il mondo.
Essi sono le immagini assiomatiche a cui ritornano continuamente la vita psichica e le teorie che formuliamo su di essa”, che  agiscono dentro di noi sotto forma di miti.

È l’anima a influenzare scelte e aspirazioni
Lo studioso americano (che ha sviluppato questa teoria assieme al contributo di altri filosofi e psicoanalisti del calibro di Henry Corbin,  Edward Casey, David Miller, Gilbert Durand, Robert Sardello), al contrario dei filoni psicologici che ritengono l’ego il luogo dove avviene la conoscenza, sostiene invece che sia l’anima a plasmare il carattere, ad influenzare le aspirazioni e ad orientare le scelte individuali.

A chi pensava che la psicologia archetipica potesse confondersi con la ricerca spirituale egli rispondeva: “Noi non stiamo resuscitando una fede morta perché a noi non interessa la fede, la vita o la morte di Dio. Psicologicamente, gli Dei non sono mai morti: e ciò che interessa alla psicologia archetipica non è la rinascita della religione, ma la sopravvivenza dell’anima”.

Per Hillmann la guarigione consisteva pertanto, nell’interagire con gli archetipi di coloro che soffrono, astenendosi da ogni giudizio clinico a suo modo di dire moralistico nei confronti del paziente.
Aggiungeva anche: “Se siamo tutti pazienti, siamo anche tutti psicoterapeuti”.

La Teoria della Ghianda

Il testamento di Hillman
Foto di Ylanite Koppens da Pixabay.

La psicologia archetipica è drasticamente diversa dal resto di quella psicoanalisi che fa risalire i problemi individuali, ai genitori, alla società od al contesto storico/sociologico che attornia il bambino.

Suggerisce invece di rivalutarne l’infanzia – così come spiegato dalla cosiddetta Teoria della Ghianda presente nel libro Il codice dell’Anima – sostenendo che è lì che va cercata la sua vocazione particolare, il talento, l’essenza contenuta nella cosiddetta ghianda che farà crescere solo quella determinata quercia e nessun altra.

In altre parole possiamo dire che James Hillmann è colui che ha riportato la psicologia sui binari originari, gli stessi tracciati dagli antichi Greci, i quali facevano coincidere l’anima con la psychè.

Chi era James Hillmann?
Era nato ad Atlantic city nel 1926 ed è morto a Thompson nel Connecticut nel 2011.
I suoi studi universitari sono iniziati alla Sorbona, per laurearsi poi nel 1950 al Trinity College di Dublino. Nel ’53 si trasferisce a Zurigo dove conosce Jung e 6 anni dopo ottiene prima il Ph.D e poi il diploma di analista al C.G. Jung Institute.

La sua formazione di analista posa le sue basi sugli studi e sulla pratica terapeutica di Carl Jung, a cui egli, riprendendo sostanzialmente il modello relativo alla teoria degli archetipi, vi innesta quelle intuizioni che lo porteranno a rinnovare la teoria del suo mentore.

Pur essendo americano al 100% è in realtà il più europeo, anzi, come lui amava farsi definire, il più mediterraneo di tutti gli psicanalisti moderni.

Silvia Ronchey ci racconta nella prefazione che “era uno studioso di filosofia, un grande conoscitore dell’antichità ed amante degli studi umanistici italiani, conosceva bene il greco, il latino, il tedesco, l’italiano ed amava anche l’opera”.

Non per nulla – come lui spiega nella Re-visione della psicologia del 1975 e nella relazione preparata per un incontro tenuto di fronte ad una platea di studiosi e psicoanalisti italiani – i veri precursori della psicologia junghiana sarebbero Plotino, Ficino e Vico, in particolare quando quest’ultimo “postula l’origine autoctona dei miti che nascono in modo indipendente tra popoli sconosciuti [..] .

O quando afferma che elementi basilari, come quelli espressi nei senso comune, nelle massime, nella saggezza popolare sono parte di un linguaggio di universali mentali, di un linguaggio mentale comune a tutte le nazioni”.

Davanti ai mosaici bizantini di Ravenna
L’ultima immagine, che possiamo considerare Il testamento di Hillman, è un libro completamente diverso sia per l’impostazione, che per contenuti, da quelli che lo hanno preceduto. Si tratta della trascrizione dei colloqui avvenuti nel 2008 quando, accompagnato dalla moglie e da Silvia Ronchey, volle visitare un luogo che per lui aveva un particolare valore simbolico: Ravenna, con i suoi mosaici bizantini, gli stessi che il suo maestro Carl Jung aveva ammirato personalmente nel ’14 e nel ’34 e che avevano lasciato in lui un ricordo talmente indelebile da venire citati nel libro Ricordi, sogni, riflessioni.

Queste trascrizioni non sono una raccolta stenografica di impressioni di stampo accademico, bensì una raccolta di sensazioni, di emozioni vissute ed anche di osservazioni riguardanti il periodo storico in cui queste opere furono create.
Raccolgono ciò che che queste immagini evocano dentro i due scrittori e per Hillman in particolare, rappresentano il master piece della sua filosofia, la conferma delle sue idee in campo psicoanalitico, il simbolo che la sua opera è compiuta.

Il testamento di Hillman
Ravenna. Mosaici bizantini. Foto di chatst2 da Pixabay

In particolare in quei passi riguardanti gli incontri avvenuti ad ottobre 2011 negli Stati Uniti – quando Hillmann, immobilizzato a letto e conscio dell’inevitabile destino che lo attendeva, dialogava e metteva a punto il libro assieme alla Ronckey –  sono ricchi di riflessioni profonde ed originali sul senso ultimo della vita e della morte. “Un esercizio estremo di quella «visione in trasparenza» di cui ha parlato nei suoi scritti ”.

Durante la lettura, veniamo accompagnati ad un sopralluogo delle immagini bizantine, dove i visi e le espressioni, i particolari che solitamente durante una visita turistica si confondono in mezzo alla grande mole di dettagli, adesso è possibile notare soprattutto grazie alla cosiddetta rilettura in trasparenza fornitaci dalla psicologia archetipica, assumendo così nuovi ed inediti significati.

Si tratta di un libro godibilissimo, dove i capitoli sono brevi e di facile lettura, che permette di meditare riguardo ai temi trattati in massima libertà, lasciando il tempo che ogni frase, ogni parola scritta, ma soprattutto ogni immagine descritta, possa essere intesa nella misura in cui oggi siamo in grado di percepirla.

Più che un libro od un manuale dell’anima, esso sembra essere una sorta di torcia tascabile che ci aiuta a far luce dentro di noi, o per lo meno quella parte che si usa definire inconscia, lasciandoci liberi di riflettere senza il peso di dogmi o verità preconfezionate.
Esso ci dona un metodo di lavoro che probabilmente è quello più adatto all’uomo del XXI secolo che anela conoscere se stesso e la propria anima.

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Ha studiato ingegneria elettronica, oggi è responsabile export. Migliora la sua competenza professionale approfodendo gli studi di economia, scienze comportamentali, psicologia e leadership. Mailto: massimo.biecher@icloud.com