di Cristina Penco. Contro il regime dei talebani molte attiviste protestano nelle piazze per rivendicare i loro diritti, rischiando la vita.
Da metà agosto le donne afghane non possono più lavorare fuori di casa. Sono autorizzate a uscire dalla propria abitazione solo se sono accompagnate da un mahram (parente stretto come un padre, un fratello o un marito) e coperte di un velo che nasconda viso e corpo, lungo fino ai piedi. Hanno il divieto di fare trattative con negozianti maschi. Sono impossibilitate a studiare in scuole, università o altre istituzioni educative.
Viene da rabbrividire. E sono solo alcune delle numerose restrizioni che riguardano il mondo femminile che riportano lo Stato dell’Asia centrale ai tempi di Gulbuddin Hekmatyar, definito il “macellaio” di Kabul per gli innumerevoli omicidi commessi.
Violenze fisiche e verbali sulle “ribelli”

Per chi non rispetta questa e altre regole sono previste frustate, percosse e violenze verbali. Succede se si utilizzano cosmetici e trucchi (ad alcune che avevano lo smalto sono state tagliate le dita). Accade pure se si viene sorprese a parlare con uomini e a ridere ad alta voce. Banditi i tacchi, perché fanno rumore quando si cammina. Le caviglie devono essere accuratamente nascoste.
Lapidazione pubblica per coloro che sono accusate di avere relazioni sessuali al di fuori del matrimonio. Pittura obbligatoria di tutte le finestre per non essere viste da fuori delle loro case. Dalla nuova presa del potere dei talebani, lo scorso agosto, l’Afghanistan è ripiombato in un Medioevo di obblighi, riti e costumi previsti dalla sharia, la legge islamica.
I talebani sostengono di non essere contro i diritti delle donne, ma che questi dovrebbero rimanere all’interno della cornice della legge islamica, la sharia. Quando hanno chiesto alla maggior parte delle donne di rimanere a casa, hanno sostenuto che si trattasse di una misura temporanea per “motivi di sicurezza”. Una spiegazione, però, che è suonata inquietante per molte, in Afghanistan e non solo.
Ritorno al buio degli anni Novanta

«Abbiamo sentito alcune di queste spiegazioni nel 1996-2001, quando i talebani dissero che la ragione per cui le ragazze non potevano studiare e le donne non potevano lavorare era perché la situazione della sicurezza non era buona.
E una volta che la situazione della sicurezza sarebbe tornata migliore, avrebbero potuto tornare. Indietro.
Ovviamente quel momento non è mai arrivato», ha affermato Heather Barr, direttore associato della divisione per i diritti delle donne di Human Rights Watch.
Le sue parole sono state riportate da Emma Graham-Harrison e Akhtar Mohammad Makoii su The Guardian. «Ciò indica che anche negli Anni ’90 i talebani sentivano il bisogno di mascherare parte della loro misoginia. Quindi questa non è una strategia di comunicazione completamente nuova che stanno perseguendo ora e le donne afghane possono vederlo», ha aggiunto Barr.

E alcune non intendono accettare questo ritorno all’antico passivamente, in silenzio. A Herat prima e a Kabul dopo diverse afghane sono scese in piazza con i cartelli e gli slogan in cui hanno chiesto parità di diritti, rappresentanza al governo, la possibilità di lavorare.
In certi momenti erano relativamente poche, come ha fatto notare qualcuno. Ma la loro presenza è già di per sé abbastanza significativa, a maggior ragione a fronte delle contro-manifestazioni a cui hanno preso parte tante altre loro simili che, invece, hanno marciato per le strade con il tradizionale chador scuro in segno di approvazione e consenso al ritorno dei “padroni”.
È a questi che si oppongono apertamente le attiviste. Il documento che hanno tenuto tra le mani davanti al palazzo presidenziale parlava chiaro: chiedono diritto di parola e di istruzione, vogliono far parte della vita politica e sociale del Paese.
Non intendono tacere, finché sarà loro possibile. Il regime taliban che è stato ripristinato le sta privando di tutte le libertà faticosamente acquisite negli ultimi vent’anni. Ma è proprio in virtù della difficoltà e del tempo che ci è voluto per ottenerle che non si rassegneranno a vederle cancellate, senza protestare. Senza perlomeno provarci.
La protesta “a colori”

Lo sa bene Kahkashan Koofi che, con il ritorno dei Talebani, ha perso il suo posto alla televisione di Stato e che davanti a questa ingiustizia ha sfidato i nuovi padroni dell’Afghanistan postando su Twitter una foto di lei con indosso un abito tradizionale verde smeraldo, con il capo coperto da uno scialle bianco (i colori vivaci e sgargianti sono stati messi al bando dai taliban, in quanto “sessualmente attraenti”).
«Quando mi sono guardata allo specchio ho avuto un attimo di pace, qui viviamo in prigione», ha raccontato Koofi al Washington Post.
L’apripista, in questa direzione, è stata Bahar Jalali. L’ex docente di storia all’American University ha raccontato alla Bbc di aver cominciato a pubblicare foto con abiti tradizionali afghani perché «l’identità e la sovranità afghane sono sotto attacco».
Subito altre donne l’hanno seguita lanciando sui social gli hashtag #DoNotTouchMyClothes (“Non toccate i miei abiti”) e #AfghanistanCulture per sottolineare che chador, burqa, niqab, indossati da alcune nelle manifestazioni a favore dei talebani, non appartengono alla loro cultura e alla loro identità, come invece viene sottolineato dal regime e dai suoi sostenitori

La tradizione, anche per quanto riguarda l’abbigliamento, è altra cosa. Ecco perché in tante stanno condividendo in Rete le foto che realmente identificano l’abbigliamento afghano, che nulla ha a che vedere con quegli abiti che coprono il corpo dalla testa ai piedi. La tessitura e il cucito sono attività profondamente radicate nelle tradizioni delle famiglie afghane, ma sono all’insegna di colori leggeri e vibranti, molto diversi dai pesanti chador neri, come ha fatto notare l’attivista Sara Wahedi.
Peymana Assad è stata la prima persona di origine afghana ad essere eletta a una carica pubblica in Gran Bretagna. A sua volta si è mostrata in un abito di un acceso viola. Si sono aggiunte al coro, tra le altre, la reporter della CBC Tahmina Aziz e la collega della Bbc Sobada Haidare.
Una battaglia di “tutte le donne”
Anche in Italia c’è chi vuole fare la propria parte “per una battaglia di libertà”. Di recente, in varie piazze della Penisola, si è svolta la manifestazione Oggi più che mai #Nonlasciamolesole, iniziativa ospitata a Roma, Milano, Venezia, Bari, Lecce, Olbia a sostegno delle donne afghane. Associazioni, movimenti, sindacati e persone comuni si sono uniti uniti dal motto, diventato hashtag sui social, Tull Quadze che in lingua pashtu significa “Tutte le donne”.
Organizzato dall’Assemblea della Magnolia, nata da una costola della Casa internazionale delle donne in piena pandemia, e sostenuta da numerose associazioni, l’evento ha voluto accendere i riflettori sulle afghane in primis, ma non solo, affinché, grazie anche alla pressione della comunità internazionale, sia loro consentito di partecipare alla vita politica, accedere al lavoro e all’istruzione, non rinunciare alle conquiste degli ultimi vent’anni.
La P, simbolo della libertà, disegnata sulla mano

Alla manifestazione erano presenti anche i militanti della fondazione Pangea, con la lettera P disegnata sulla mano, la stessa che, nelle tragiche giornate della presa dei talebani, è diventata un simbolo: ha rappresentato il lasciapassare verso la libertà disegnato sulla mano di molte donne e uomini accalcati all’aeroporto.
Se la sono disegnata le attiviste di Pangea, assieme ai loro familiari (in tutto 270 persone), per farsi riconoscere dai carabinieri del Tuscania che le hanno accompagnate al gate dell’aeroporto di Kabul da dove sono partite per Roma dopo essere state minacciate e percosse e dopo notti insonni per il terrore.
La onlus, con sede a Milano, opera a Kabul dal 2003. In 18 anni di attività in Afghanistan ha coinvolto più di 7.000 donne (con relative famiglie alle spalle, nonché oltre 60.000 bambine e bambini), diventate consapevoli dei propri diritti e hanno raggiunto un’emancipazione sociale ed economica.
Le richieste delle manifestanti
Hanno spiegato le organizzatrici, scese in piazza: «Chiediamo che i diritti delle donne non siano argomento di negoziazione né retrocedano rispetto a quanto era stato conquistato in Afghanistan: istruzione, lavoro e possibilità di manifestare per tutte e tutti; che le donne possano partecipare alla vita politica e siano nei tavoli internazionali sui processi di mediazione di pace per l’Afghanistan come richiede la risoluzione Onu 1325 su Donne Pace e Sicurezza».

Tra le iniziative rientrerebbero anche «un Osservatorio permanente sui diritti delle donne in Afghanistan, al ministero Affari Esteri e all’Onu, per monitorare la condizione femminile e intervenire sulle violazioni; un piano straordinario di evacuazione umanitaria per chi vuole lasciare il Paese, con particolare attenzione alle donne che hanno maggiori difficoltà a trovare vie di fuga in maniera protetta; un piano di accoglienza in Italia dei richiedenti asilo che rispetti le questioni di genere e che tenga conto delle storie di violenza che vivono le donne nei paesi di provenienza, durante il transito e all’arrivo».
Molte donne afghane – come continua, giustamente, a essere evidenziato da più parti – adesso sono politicamente consapevoli rispetto al passato e non intendono soffocare le loro voci né nascondere i loro volti, letteralmente e metaforicamente. Qualcosa che magari vent’anni fa non erano pronte a fare. L’obiettivo è portare avanti queste e altre lotte, trovando «modi intelligenti per stare al sicuro».
Per saperne di più:
https://www.theguardian.com/world/2021/sep/03/afghanistan-women-defiant-amid-taliban-crackdown
https://www.micromega.net/rawa-resistenza-donne-afgane/
https://it.mashable.com/6305/vestiti-protesta-social-donne-afghane
https://www.agi.it/cronaca/news/2021-08-23/attiviste-pangea-salvate-p-mano-13647703/
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