di Donatella Galletti. Un racconto metafora in cui si vede come la realtà quotidiana può trasformarsi in un incubo. Per non cadervi dentro è necessario rimanere vigili.
Ambra era felice. Finalmente una vacanza, pensava mentre preparava la valigia, valutando con attenzione quali capi portare e cosa avrebbe indossato, per non appesantire inutilmente il carico. Un anno intero nella città ricca di spunti ma pesante emotivamente, per la gente e le problematiche legate a tante menti messe insieme in uno spazio ristretto, ciascuna con le proprie idee e aspirazioni, che spesso cozzavano con altre vicine.
Sarebbe andata in auto fino al traghetto, per poi arrivare alla casa che tanto le era cara. Controllò i biglietti, le raccomandazioni per la collaboratrice domestica in bella vista su un bigliettino in cucina, chiuse la porta di casa e si lasciò tutto alle spalle.

Il viaggio si era svolto come le altre volte, aveva fatto tappa a salutare gli amici sparsi per l’Italia, si era imbarcata arrivando in ritardo, ma comunque in tempo, e finalmente era approdata sull’isola, arrivando alla casetta bianca che tanto le piaceva e l’aveva sempre accolta come in un bozzolo, abbracciando la sua creatività e permettendole di essere se stessa.
Le sue origini sarde la richiamavano ogni anno in quella terra antica, ricca di misteri ancora non risolti, di echi della Dea Madre e di navigatori, di rituali ormai scomparsi, ma anche di quel carattere che era peculiare agli isolani: un po’ scontrosi a volte, orgogliosi, fatti a modo loro, fedelissimi all’amicizia e ai veri valori dell’ospitalità.
Aprì la porta di casa e stanca per il viaggio appoggiò i bagagli e aprì le finestre. Fece qualche telefonata, e quando si rese conto che l’ora di cena era passata, uscì per rimediare qualche provvista.
Il paese era lindo come sempre, ma stranamente vuoto, non vedeva persone in strada. Il supermercato era chiuso, e così i negozi nei quali in genere andava. Rimediò un panino in un bar e andò a dormire.
Si risvegliò molto stanca: aveva dormito di un sonno pesante e aveva la sensazione di essere passata in un turbinio di sogni, neri e grevi. Non era da lei.
I giorni passarono, con una specie di marchio: il tempo era bello, i colori vividi come solo lì potevano essere, la spiaggia invitante, ma non riusciva a inserirsi nell’ambiente. Giorno dopo giorno sfioriva, si risvegliava stanca, aveva perso il potere creativo e una malinconia indefinita si stava impossessando di lei, più che malinconia una tetra ombra nera. Le sembrava di scivolare inesorabilmente in un tunnel sempre più scuro, del quale non capiva il significato.

Un giorno, mentre tentava di dipingere, sentì un rumore in cucina, come di passettini leggeri. Sulla tela c’erano colori cupi, non i suoi soliti, c’era un vortice scuro dai colori inquietanti al centro.
Proseguì col lavoro. Nel vortice sembrava volesse prendere forma una sagoma, forse un uomo inghiottito. Si allontanò per esaminare meglio il dipinto.
Udì ancora passettini, questa volta distintamente, più insistenti, il rumore di un vetro leggero rotto e il rubinetto che gocciolava.
“Ecco”, pensò, “guarda come mi hanno lasciato la casa: pulita alla bell’e meglio, con le persiane rotte e quel senso di trascuratezza, ed ora il rubinetto che perde”. Si decise finalmente a lasciare il lavoro, sul quale cercava con uno sforzo di concentrarsi, per vedere di cosa si trattasse. Entrò in cucina e controllò il rubinetto: in effetti c’era acqua nel lavandino, ma non perdeva. Nessun rumore, nessun passo e non c’erano vetri rotti in giro.
Tornò a sedersi davanti al cavalletto, ma dopo poco i rumori ricominciarono, e così il suo andare a vedere. Alla quinta volta, poiché ogni volta i rumori sparivano, le sembrò di vedere una forma che si era mossa in un angolo.
“Devo farmi controllare la vista”, riflettè. Di nuovo sentì un passo e si voltò di scatto in direzione del rumore. Questa volta vide come una forma semitrasparente alta circa cinquanta centimetri. Si era mossa velocemente nell’angolo ed era sparita. Un gatto non era di certo, ma si era mossa con l’agilità di un felino.
“Qui mi portano in psichiatria”, pensò ridendo da sola, e decise di entrare nel suo sogno o di qualsiasi cosa si trattasse.
“Allora, avete finito? Vi pare il momento di farmi scherzi? Devo lavorare, non ho certo tempo di giocare a nascondino con voi”. Come in risposta risuonò un lungo fischio, quasi di scherno.
“Sono una signora, non è il caso di rispondere in questo modo, se volete dirmi chi siete e perché vi comportate così, fatelo ora, altrimenti torno al lavoro. Ricordatevi che la casa è mia, dovete giustificare il vostro essere qui a disturbare.”
Una vocina rispose. “Ah, tu dici così, ah, sei una signora, e magari molto arguta. Hai capito allora perché dipingi solo tunnel neri e non i tuoi soliti quadri colorati e sereni?”.
Ambra sobbalzò. Certo il suo sogno era molto reale, si andava di male in peggio: prima la depressione, poi i suoni, ora le voci, e di scherno. “No, non l’ho capito. Volete forse darmi a intendere che siete voi a disturbare? Ditemi i vostri nomi, tanto per iniziare, perché io non parlo con sconosciuti anonimi”. Ci fu una pausa di silenzio, la risposta non arrivava, come se stessero riflettendo.
“Noi ci chiamiamo Jinn e Gion, siamo due genietti della casa, portati qui in tempi remoti con un incantesimo, e siamo qui a proteggerla da sempre. Tu ci vedi perché le tue difese sono cadute e sei stanca e depressa, al punto che non puoi attivare la tua solita razionalità e malfidenza nei nostri riguardi”.
“Caspita”, pensò Ambra. “Non hanno certo peli sulla lingua”. Sapeva che era tutto vero, nulla da dire. Riconosceva onestamente quando qualcuno le faceva notare qualcosa di lei magari non piacevole da sentire, ma giusto.
” Va bene, allora piacere, Jinn e Gion, ma le vostre intenzioni quali sono? Non mi sembra che rompere vetri e disturbarmi mentre lavoro sia proteggere la casa, che oltretutto rispetto grandemente”.
“No, non ti vogliamo disturbare, ma dovevamo attirare la tua attenzione. Se ci segui, ti mostreremo qualcosa, verrai con noi ma… ma ti avvertiamo, al ritorno non sarai più la stessa di quando sei partita”.
Ah ecco! Ambra era curiosa, non si sarebbe mai tirata indietro se c’era qualcosa da conoscere, e in questo caso se fosse tornata meno depressa, tanto meglio.
“Va bene, accetto, portatemi con voi, ma voglio essere di ritorno prima di sera e che mi assicuriate che non mi accadrà nulla di male”.
“Certo, affare fatto”. “È un sì?”. “È un sì”.

Ambra sapeva che in certi mondi un sì o un no sono un impegno che si rispetta, a differenza di un “Certo”. Certo cosa? Certamente sì o certamente no?
Improvvisamente sembrò che le pareti della cucina fossero fatte di carta, il pavimento era come di gomma o di qualche sostanza liquida, ma continuava a sorreggerli.
Davanti a loro si aprì un foro: sembrava l’ingresso di un tunnel o di un pozzo, fatto tutto in pietra locale, pietra su pietra una accanto all’altra.
“Questo tunnel, perché è questo che ti stai chiedendo, è stato fatto in tempi antichissimi, da gente che era qui prima dei sardi come li considerate voi, ed ha passato parte della sua saggezza ad iniziati. Tu sei sufficientemente avanzata da poter avere la possibilità di entrare e vedere dove si arriva”.
Non c’era altro da sapere. Si addentrarono calandosi nel pozzo, che era provvisto di una scala comoda ma invisibile ad una prima occhiata. Scesero sempre più giù, sembrava non finire mai, poi a un certo punto si trovarono in piano, in un tunnel che scendeva ma con lieve pendenza. Camminarono a lungo e in silenzio, finché arrivarono all’ingresso di una grande sala.
Jinn e Gion avevano avvisato Ambra di stare nascosta, si erano posizionati in una nicchia in ombra. La sala non era molto illuminata, ma si vedeva chiaramente, anche perché arrivavano da miglia di oscurità semi completa.
In fondo alla sala c’erano come tre sedili simili a troni, sui quali erano assisi dei personaggi che sembravano usciti da un fumetto: neri come il petrolio, dalla pelle lucida, con una specie di proboscide, arti, occhi dall’iride rossa e accesa, orecchie lunghe come tubi che si muovevano alla ricerca di qualsiasi rumore.

Jinn e Gion non parlavano, ma Ambra sentì le loro voci che le dicevano che i soggetti che vedevano non avevano il senso dell’olfatto e quindi non sentivano la loro presenza, per fortuna. Si nutrivano di monete d’oro, infatti si poteva vedere che le mangiavano in continuazione come fossero patatine fritte.
Davanti a loro c’era una lunga fila composta di persone, con il capo chino, legate con una corda che collegava gli uni agli altri ai polsi e alle caviglie. Davanti ai tre individui c’era un uomo che assomigliava a quelli in fila, ma era vestito elegantemente e con una postura dritta, con il mento alto e il capo quasi all’indietro. Si capiva che era orgoglioso del suo ruolo.
“Avanti il prossimo”. La fila avanzò. Ambra notò che in un grande cesto c’erano delle enormi code di gallo, con le penne dai colori verde scuro e nero, e delle creste, blu e rosse. L’uomo ne prese una in mano, gli arrivava al petto. Ambra vide con orrore che in fondo alla coda c’era un meccanismo come quelli delle gru per afferrare oggetti, con sottili uncini di metallo che si aprivano e si chiudevano. Le ricordava un oggetto che aveva visto nel museo delle torture, e veniva inserito nelle parti intime delle streghe per poi essere aperto e straziare le carni.
Con un movimento veloce e subitaneo, l’uomo vestito bene inserì la coda nella schiena dell’uomo davanti a lui. Echeggiò un urlo di dolore. Seguì la cresta, con lo stesso meccanismo.
Ambra venne presa da un senso di disgusto e di orrore. Uno dopo l’altro gli uomini legati in coda si offrivano al supplizio, rassegnati, e qualcuno anche contento e orgoglioso.

Gli esseri in nero leggevano quello che sembrava essere un proclama, che spiegava come gli uomini che dovevano essere sottoposti all’operazione sarebbero diventati più belli, più intelligenti, più efficienti nel fare i compiti loro assegnati, e soprattutto tutti uguali, così che nessuno avrebbe parlato male di loro o li avrebbe mai derisi o offesi, come era successo in passato. Erano un popolo unito, reso bello, buono e valoroso. Il dolore era un nulla, anche se non sarebbe mai passato, al minimo movimento, ma era certo un buon prezzo da pagare per essere così belli.
Ecco che accadeva qualcosa: un uomo in fila cercò di sottrarsi, era infatti riuscito a tagliare le corde che lo legavano. Ambra si chiese cosa sarebbe accaduto ora. Due gendarmi sbucarono dal nulla, e venne tenuto mentre uno degli individui in nero leggeva un altro proclama.
“Vedete?” diceva. “Lui è diverso da voi, non ha capito nulla, vuole rimanere povero e stupido, non sarà mai bello, e sarà anche aggredito dai Follkorn che arrivano all’improvviso e si mangiano quelli come lui”.
Gli uomini in fila iniziarono a fischiare, a deriderlo, a gridare di adeguarsi e ragionare, mentre altri lo guardavano con estremo rimprovero.
Proprio allora uno dei gendarmi sembrò notare Ambra e i genietti. Jinn e Gion presero Ambra per le braccia, ai suoi lati, e veloci come la luce percorsero volando con lei tutto il tunnel a ritroso.
Uscirono dal pozzo in tutta fretta, presero un enorme diamante rosa e lo posizionarono all’uscita.
Ambra era sconvolta. Non sapeva cosa pensare, ma se era un sogno era uno dei più brutti.
“Hai visto Ambra? Ora hai capito cosa ti impediva di lavorare ai tuoi dipinti? Da quel pozzo, che qualcuno prima di te aveva lasciato aperto, usciva il male che tu hai visto e inondava tutta la casa. Noi, in quanto protettori, avremmo potuto chiuderlo prima, ma non ti avremmo dato la consapevolezza e l’apertura che avevi bisogno di avere in questo periodo della tua vita. Ora potrai lavorare”.
La casa era inondata di luce, un profumo di rose e di fiori, gelsomino, plumeria, narcisi, si era sparso attorno. Ambra ringraziò e andò nello studio per vedere se anche lì c’era un’atmosfera diversa. Al suo ritorno in cucina la casa era quella di sempre, solo più tranquilla e accogliente.
Non seppe mai cosa fosse successo in realtà, ma importava?
testo e disegni di Donatella Galletti©
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