Tempo ed eternità

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Filippo Falzoni ci propone un brano di Ananda Coomaraswamy sulla dottrina del Tempo nei contesti vedico, buddhista, greco, cristiano e islamico

Ananda Coomaraswamy, nato a Sri Lanka (1877 – 1947), è stato grande studioso dell’arte indiana, islamica e medio-orientale. Prolifico scrittore, lavorò a lungo presso il museo di Fine Arts di Boston.

Ananda Coomaraswamy

I suoi numerosi libri raccolgono la sua profondissima conoscenza dei miti e della simbologia delle antiche tradizioni. Tutti suoi libri meritano un’attenta lettura e sono portatori di ispirazioni e saggezza.

Traggo dal primo capitolo del volume Tempo ed Eternità (Ediz. Mediterranee, Roma 2014) queste pagine in cui si può cogliere una tema essenziale delle esperienze mistiche e transpersonali. In questi stati infatti con la trascendenza dell’io si può attingere al “Continuo Infinito Presente” e alla percezione “dell’attimo eterno”.

da: Tempo ed eternità

Esamineremo la dottrina del Tempo e dell’Eternità nei contesti vedico, buddhista, greco, cristiano e islamico.
Entrambi i termini sono ambigui. Il “Tempo” è sia la totalità, o una parte, del continuum della durata passata e futura, sia questo punto presente del tempo (nunc fluens) che distingue fra loro le due durate.

L’«Eternità» è, dal nostro punto di vista temporale, sia una durata senza inizio né fine, sia, in sé stessa, quel punto inesteso del tempo che è Ora (nunc stans).

Dal punto di vista che si può chiamare “esteriore” o “letteralista”, si concepisce che il tempo, nel primo senso, abbia avuto un inizio e proceda verso una fine; esso viene pertanto contrapposto all’eternità considerata come una durata perpetua senza inizio né fine.

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L’assurdità di queste posizioni diventa manifesta se ci domandiamo con S. Agostino: “Che cosa faceva Dio (l’Eterno) prima di creare il mondo?”; la risposta è, naturalmente, che essendo il tempo e il mondo interdipendenti – o, in termini di “creazione”, concreati – la parola “prima” non ha alcun senso in una tale questione.

È per questo che l’esegesi cristiana afferma abitualmente che “in principio”, non implica un “inizio nel tempo” bensì un’origine nel Principio Primo; ne consegue logicamente che Dio (l’Eterno) crea il mondo ora e sempre.

 

La dottrina metafisica contrappone semplicemente il tempo in quanto continuum all’eternità, che non è nel tempo e che non può essere propriamente chiamata durata perpetua, poiché essa coincide con il presente reale, l’istante, di cui non si può avere esperienza nel tempo.

Qui la confusione sorge solo per una coscienza che riflette in funzione del tempo e dello spazio, poiché, per essa, un “istante” succede a un altro “istante” senza interruzione e sembra che vi sia una serie indefinita d’istanti, collettivamente assommati nel “tempo”.
Questa confusione può essere dissipata se ci rendiamo conto che nessuno di questi istanti ha durata e che, quanto alla misura, essi sono tutti degli zero la cui “somma” è impensabile. È una questione di relatività: siamo “noi” a essere in movimento, mentre l’Ora è immutabile anche se sembra spostarsi – proprio come il Sole sembra levarsi e tramontare a causa della rotazione della Terra.

Il problema che si pone è quello del luogo della “realtà”: la realtà o l’essere possono essere attribuiti a una “cosa” che esiste nel flusso del tempo e che, di conseguenza, non è mai uguale a se stessa, o solamente a degli enti, o a un ente onnicomprensivo, situati fuori dal tempo e pertanto sempre identici?

Un breve esame di questo problema fornirà una base allo studio della dottrina tradizionale del tempo e dell’eternità. Il sanscrito satyam (da as, essere), come il greco “essere” significa il “reale”, il “vero” o il “bene” (ens et bonum convertuntur).

In questi sensi satyam può essere predicato delle “cose esistenti”, che nella loro varietà vengono collettivamente chiamate “nome-e-forma”: e mediante questa verità (relativa) – quella del “nome-e-forma”, per mezzo del quale Dio è presente nel mondo e si manifesta come differenziato.

“L’immortale, lo Spirito della Vita, è nascosto”, proprio come il Sole, la Verità, è nascosto dai suoi raggi e che gli si domanda di splendere affinché si possa vedere la sua “forma più bella”.

Allo stesso modo, le potenze dell’anima sono “vere” o “reali”, ma “la Verità che è il Sé, è la Realtà della loro realtà, o la Verità della loro verità”: “quella Realtà, quel Sé, tu stesso Lo sei”.

Sempre in questo senso assoluto, Verità o Realtà (satyam) è sinonimo dì Dharma, Giustizia, Lex Aeterna, uno dei nomi di Colui “che solo è oggi e domani”: e solo chi conosce questa Verità Suprema (paramirtha-satyam) può essere chiamato un “maestro della parola”, e commenta, “già mai non sia sazio nostro intelletto, se il ver non lo illustra di fuor dal qual nessun vero si spazia” (Dante, Paradiso, 124-26).

È quindi dalla verità relativa del nome-e-forma (nama rupa) che il Conoscitore è liberato, per quanto valida possa essere a fini pratici, tale verità è una falsità o irrealtà se paragonata alla “Verità della verità, la Verità assoluta, ed è da questa falsità che sono oscurati i nostri Veri Desideri”.

In altre parole, le “cose” temporali sono sia reali che irreali. Contrariamente a ciò che è stato spesso affermato, il Vedanta non nega la loro esistenza, “poiché la specificità di questo mondo quaggiù, dimostrata da tutti i criteri non può essere negata” e “la non-esistenza degli oggetti esteriori è confutata dal fatto che li percepiamo”.

Nella presente connessione è irrilevante che Shankaracharya abbia frainteso la posizione buddhista, la quale evita gli estremi «è» e «non è».

L’importante è che il Vedanta sia in perfetto accordo con la dottrina platonica, secondo la quale le cose sono “false” nel senso che un’imitazione, benché esista, non è “la cosa reale” di cui è imitazione – e con la dottrina cristiana, così come formulata da S. Agostino: “Io guardavo queste cose al di sotto di Te, e vidi che esse non sono né non sono. Esse hanno un’esistenza (esse), perché vengono da Te, e tuttavia nessuna esistenza, perché non sono ciò che Tu sei.

Poiché è solo questa realtà, che resta immutabile; il Cielo e la Terra sono belli e buoni, e sono (sunt), poiché Dio li creò”, ma “paragonati a Te, essi non sono né belli, né buoni, né sono (nec sunt)” (Confessiones, VII. 11 e XI, 4).

La dottrina del Vedanta secondo la quale il mondo ha “la natura dell’arte” (Maya-maya) non è una dottrina dell’illusione, bensì distingue semplicemente la realtà relativa del manufatto, dalla realtà superiore, quella dell’Artefice, nella quale sussiste il paradigma. Il mondo è un’epifania; ed è solo colpa nostra se erroneamente prendiamo “le cose che furono fatte” per la realtà secondo la quale furono fatte, il fenomeno per ciò di cui i fenomeni sono l’apparenza!

Per giunta, l’illusione non può essere propriamente attribuita a un oggetto; essa può sorgere solo in colui che la percepisce: l’ombra resta un’ombra, qualsiasi cosa ne facciamo.

Per saperne di più:
Libri consigliati di Ananda Coomaraswamy:
Induismo e Buddismo, Storia, dottrina, credenze e scritture sacre, Rusconi Ediz. Milano 1973-94
La Trasfigurazione nella Natura e nell’Arte, Ediz. Rusconi, Milano 1976-90
Il grande Brivido. Saggi di simbolica e arte, Ediz. Adelphi, Milano 1987
La danza di Siva, Ediz. Adelphi, Milano 201
La Dottrina del Sacrificio, Ediz. Luni, Milano 2015
Sapienza Orientale e cultura Occidentale, Ediz. Lindau Torino 2018

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Giornalista, scrittrice, ipnologa, è considerata un'importante divulgatrice nel campo della medicina olistica, la ricerca psichica, la psicoterapia transpersonale. Ha scritto numerosi libri su questi argomenti e la sua ricerca cardine riguarda la reincarnazione attraverso l'ipnosi regressiva. Spesso ospite nei convegni come relatrice sulle tematiche che riguardano la sopravvivenza, è stata spesso in radio e in Tv e ha condotto anche trasmissioni in una Tv privata. Mailto: manuela.pompas@gmail.com