Autore: Albert Camus
Riduzione teatrale: Luca Ragagnin
Interprete: Fabrizio Gifuni
Regia: Roberta Lena
Interventi sonori: G.U.P Alcaro
Teatro Parenti Milano 2-3 luglio
“Lo straniero”, il romanzo di Albert Camus pubblicato nel ’42 e considerato uno dei capisaldi dell’esistenzialismo, portato a teatro con la lettura magistrale di uno straordinario Fabrizio Gifuni (che l’aveva già presentata a settembre nell’ambito della manifestazione “Torino Spiritualità”), diventa un’intervista “impossibile”, come recita il titolo, sottolineata dalla presenza di tanti microfoni e tante luci, come se il protagonista, Arthur Meursault, raccontasse la sua storia a una serie di giornalisti invisibili. Potremmo anche dire che la sua è una confessione lucida e distaccata, il racconto di un uomo condannato a morte per un delitto, ma forse più per la sua indifferenza ad ogni cosa: per lui tutto “è lo stesso”, la morte della mamma, sulla quale non piange una lacrima, ma non ha neanche emozioni o rimpianti. E’ “lo stesso”, sposare o no Marie, innamorata di lui, aiutare o no il suo vicino di casa, che ha il pugno facile anche con le donne. Ed “è lo stesso” vivere o morire. Gifuni/Meursault entra in scena vestito di bianco (come Mastroianni nel film di Visconti), infastidito solo dal sole accecante di Algeri. E, nel reading, si identifica non solo con il protagonista, ma con tutti i personaggi di questa triste e squallida storia, che in qualche modo richiama anche i ragazzi delle periferie romane di Pasolini, persone senza ideali, senza fede, che si lascia trascinare dalla vita senza cavalcarla. Il racconto (“Che mi ha permesso uno sprofondamento progressivo nell’anima di Meursault”, confida l’attore), si svolge in nove quadri: la veglia e il funerale della madre, che lui ha confinato in un ospizio per vecchi perché non può mantenerla, l’incontro con Maria, di cui ha “voglia”, non più di quanto potrebbe averne per un po’ di aria fresca, l’incontro con il vicino rissoso, l’omicidio sulla spiaggia, il processo con la condanna a morte, il rifiuto del prete e del suo dio. Il tutto senza emozioni, magari solo con un po’ di fastidio, di noia, che traspare non solo dal viso del protagonista, ma anche da piccoli gesti delle mani. E naturalmente il tutto condito dal senso di assurdità, di ineluttabilità, di chi non dà valore neanche alla vita.
Un finale con lunghissimi applausi a un attore di grande spessore, da poco premiato con il David di Donatello e il Nastro d’argento per Il capitale umano di Virzì.
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