di Manuela Pompas.

In Birmania (oggi Myanmar) ho passato dei momenti straordinari: in questo Paese dove sembrava regnare la pace, ho ammirato i grandiosi templi dalle guglie dorate di Yangoon o i tempietti di Bagan, ho meditato nei giardini dei luoghi di culto sotto gli alberi della Bodhi, della famiglia di quello sotto il quale Buddha ricevette l’illuminazione.
Ho apprezzato il lavoro degli artigiani, la gentilezza della popolazione, la cucina semplice e sana, il clima mite, il mare…
Ecco, un Paese a cui non so perché mi sento legata, dove avrei voluto tornare finita la pandemia. E non potrò più farlo.

Perché è accaduto qualcosa di tragico che il mondo sperava non avvenisse. il 1° febbraio, alle 5 del mattino, i militari hanno arrestato Aung San Suu Kyi, consigliera di Stato e ministro degli Esteri, premio Nobel per la Pace (anche se questo sembra le sia stato ritirato per non aver difeso i Rohyngya), dopo che a novembre aveva vinto le elezioni.
E così la Birmania, dove è stato proclamato un anno di emergenza, torna sotto la dittatura militare, voluta dal comandante generale dell’esercito, Min Aung Hlaing, che voleva ristabilire il «ruolo di leadership politica nazionale dei militari» e che ora avrà tutti i poteri.
Ovviamente tutto il mondo ha condannato il colpo di Stato, ma cosa verrà fatto di concreto?
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