di Massimo Biecher. Le declinazioni dell’etica in campo aziendale (e non solo), per una sana rivisitazione della modalità di lavorare e di interconnettersi con colleghi e superiori
Nella prima parte abbiamo effettuato un’analisi etimologica del termine “etica” ed avevamo scoperto come essa derivi dal termine greco antico αἰθήρ (aither) e come da qui si pervenga alla divinità Θέμις (Themi).
La conclusione era che l’etica é sì una sorta di legge, ma non quella che trova il suo fondamento in un insieme di norme giuridiche, bensì si ispira ad una legge superiore. Divina appunto.
Avevamo anche sostenuto che per guidare le organizzazioni verso un futuro sempre più caratterizzato dalla complessità, non bisogna solamente puntare su generici valori condivisi o sull’apprendimento di tecniche organizzative sempre più complesse, ma andare invece alla riscoperta quei principi da cui tutto inizia e che regolano e spiegano ogni comportamento delle persone e della materia.
Affinché ogni individuo che appartiene ad una azienda possa sentire di farne parte, di vivere un luogo che per lui sia stimolante e creativo è proprio sull’etica che bisogna puntare.
L’etica pertanto, trovando la sua ispirazione da qualcosa “che proviene dall’alto”, non può ridursi ad una analisi razionale di ciò che sia giusto o meno per le persone o per l’organizzazione e tanto meno che si tratti di una lista più o meno sobria di buoni propositi da mettere in atto.
Etica come integrazione e superamento della ragionekantiana
Anzi, a nostro avviso il suo compito principale è quello di rinnovare e vivificare l’ambiente di lavoro, superando la ragione kantiana.
Ad essa siamo infinitamente debitori perché ci ha portato allo sviluppo della civiltà tecnologica moderna ma allo stesso tempo anche fuori da una paludata religiosità dogmatica e superstiziosa.Ma senza “gettare via il bambino assieme all’acqua sporca” aggiungiamo noi.
Essa porta al risveglio, all’emersione prima ed all’integrazione poi, di quella parte irrazionale ed inconscia di ciascun individuo, di quella parte che cela il vero tesoro che é dentro di noi, per metterlo al servizio anche del lavoro.
Etica è riconoscere la scintilla divina che è in noi
Etica è soprattutto imparare a riconoscere la scintilla divina che arde dentro di noi, cosa che è possibile solo mediante un cammino di ricerca spirituale e non certo grazie allo studio accademico di impostazione tecnico/scientifica.
È anche riconoscere che ogni individuo è dotato di anima, apprendendo quindi come opera la psiche e quali sono le leggi che la governano. E chi guida un’organizzazione non può ignorare i meccanismi che vi stanno dietro, altrimenti finisce per stupirsi di quei comportamenti apparentemente irrazionali, che decine di corsi di formazione per manager catalogano sbrigativamente come “sfida all’autorità” o “mancanza di motivazione”.
Talvolta a queste istanze si risponde di impulso con frasi del tipo: “Ma chi ti ha detto di fare così..”, “Prima di fare mi devi chiedere.. “, “Non ti devi permettere di prendere iniziative senza il mio consenso”, le quali sottintendono che non riponiamo alcuna fiducia verso il nostro collaboratore.
Egli a sua volta, percepisce questo messaggio “sottinteso”, il quale riaffiorerà successivamente in forma più o meno diretta mediante i cosiddetti sabotaggi consci od inconsci.
Creare un ambiente favorevole allo sviluppo delle qualità inespresse

L’etica ci sollecita a muoverci in direzione della scoperta del proprio mondo interiore, perché l’organizzazione etica sa che l’individuo che conosce se stesso è equilibrato ed in pace con sé stesso prima e poi, anche con gli altri.
È anche praticare l’ascolto di chi ci circonda per entrare in sintonia con gli altri, sviluppando così quella dote che si chiama empatia.
Ascoltare infatti è una qualità tipica del buon imprenditore o dirigente che solitamente si pone in ascolto delle esigenze del mercato mediante le ricerche di marketing o dei report dei venditori, ma sviluppando anche il cosiddetto sesto senso che intuisce le tendenze ben prima che esse si manifestino.
Rispettare l’altro: superare il giudizio e la critica sul luogo di lavoro
Etica è la pratica del non giudizio, del non criticare, del rispettare ogni scelta o decisione fatta dall’altro, altrimenti egli finisce per rinchiudersi sempre di più in sé stesso finendo talvolta per perdere la fiducia e quindi di soffocare il proprio talento.
Il compito di una struttura ispirata da valori “alti” é quello di tenere acceso quel fuoco che arde nei nostri cuori ed in quello dei nostri collaboratori.
Infatti, il termine “critica” che deriva dal greco Krisis (κρίσις) e a sua volta dall’aggettivo verbale Kritos (κριτός), che significa giudicare, sentenziare, condannare, ma anche dividere. La critica quindi, genera una “frattura”, una separazione che ha come conseguenza il deterioramento della fiducia reciproca.
Ma non solo. Criticare presuppone l’esistenza un’autorità che si pone su un gradino più elevato (non ci riferiamo qui alla gerarchia) e che valuta qualcun’altro in base parametri arbitrari.
Nessuno può essere giudice di un altro
Ma se, come abbiamo visto, queste leggi che guidano l’etica sono di ispirazione “universale” o basate sui “giusti principi” nell’accezione data a suo tempo da Stephen Covey, pur rimanendo nel rispetto della gerarchia e affinché l’organizzazione produca il reddito necessario per remunerare chi vi lavora, i fornitori, le tasse e gli investitori, la conseguenza naturale è che non ci possa essere qualcuno che si erga a “giudice” di qualcun altro.
Il rispetto dell’individualità infatti passa attraverso il riconoscimento e la consapevolezza che ognuno di noi ha ricevuto dei talenti e che gli sono state concesse determinate opportunità e missioni da compiere che vanno ben al di là della legittima produzione di ricchezza.
Non temere di impiegare le emozioni a vantaggio dell’organizzazione

Una visione etica inoltre, ci aiuta ad accettare gli eventuali errori e a non avere più paura di sbagliare perché come dice Jung “il rischio dell’errore ed il timore dell’incomprensione con il prossimo, ci può abbandonare alla solitudine.
Tuttavia esso è un dovere irrinunciabile poiché si tratta di un valore interiore, la violazione del quale non è uno scherzo e ha, alle volte, gravi conseguenze psichiche”.
Per Jung quindi decidere, agire, prendere posizione con coraggio, vuol dire essere in sintonia con le proprie idee e pulsioni, quindi non rinnegare mai se stessi.
Questo messaggio tra l’altro, toglie al leader l’assillo del dubbio che talvolta lo attanaglia, cioè domandarsi “ma ho fatto bene a fare così?”, “qual é la cosa giusta da fare per motivare i collaboratori senza stressarli?”. Quindi significa permettere a sè e a chi concorre al perseguimento di determinati obiettivi che il mondo delle emozioni, dei sentimenti e della creatività possano manifestarsi liberamente e senza timore di creare scandalo.
Per fare ciò è necessario che avvenga la scoperta e la presa di coscienza dell’esistenza e della vitalità di quella parte del mondo interiore che la psicoanalisi junghiana chiama Ombra, cioè la nostra parte più nascosta e sconosciuta.
Generalmente le organizzazioni, con l’eccezione di quelle che fanno della creatività il core business, fanno di tutto per tenere a bada questo mondo. Mondo che in alcuni casi fa così paura, che ci si sforza ad esorcizzarla profondendo grandi energie ed investimenti nel perseguimento della cosiddetta efficienza.
Le emozioni, queste sconosciute
Quest’ultima a detta di molti studiosi del campo delle organizzazioni, avrebbe come scopo, oltre alle più ovvie e note funzioni, quello di imbrigliare, tener sotto controllo e condizionare i comportamenti degli individui in modo da tenere lontano da essi il mondo delle emozioni, foriero secondo alcuni di preoccupazioni immotivate, intralci allo svolgimento fluido e senza intoppi del lavoro e di distrazioni inutili.
Ma questo mondo fa tanta paura non perché sia oggettivamente destabilizzante per il funzionamento equilibrato di una struttura, me perché è ai più sconosciuto e quindi angosciante. Purtroppo reprimere quel mondo, tentare di soffocarlo, comporta effetti collaterali imprevedibili e veramente dannosi per l’organizzazione.
L’etica incide anche sulla qualità e sui risultati pratici del lavoro

Inoltre, l’azienda, il lavoro, è il luogo dove gli individui si incontrano non solo per trasformare un manufatto od un’idea in qualcosa di più complesso, ma è un luogo dove essi si incontrano per relazionarsi l’uno con l’altro.
È una vera palestra per le anime che, a causa di queste interazioni, possono così evolversi ed elevarsi anche spiritualmente.
Non solo, ma dove alla visione etica viene permesso di agire, essa ha un influenza determinante anche su come avviene il progresso culturale e tecnologico.
Facciamo notare che non a caso il lavoro del piccolo imprenditore é detto artigianato, il che lascia intendere che il lavoro sia un’espressione assimilabile all’opera d’arte. Infatti se andiamo indietro nel tempo, al mondo dell’antica Grecia, l’arte si chiamava τέχνη, techné, proprio il termine da cui poi é derivata la parola tecnica e quindi tecnologia.
Il lavoro vissuto come una forma d’arte
Pertanto, se il lavoro è una forma di arte, esso va affrontato mediante le categorie dell’estetica, avendo quindi come fulcro non solo il prodotto finito, il servizio in sé e quanto costa produrlo e distribuirlo, ma ponendosi a priori la domanda se quello che è stato fatto sia anche bello, se da esso traspare una qualità intrinseca e se esso è in grado di trasmettere un emozione quando viene osservato o preso in mano.
Questo vale anche e soprattutto per i semilavorati che andranno adoperati all’interno di altri prodotti e che quindi non sono di solito visibili. Da questo punto di vista proprio la lettura di qualche libro sullo nascita e sullo sviluppo del primo modello di McIntosch fornisce numerosi indizi ed idee utili.
E per far bene il lavoro, l’attenzione va focalizzata sulla cura del progetto, sulla qualità dell’ambiente del lavoro e sulla qualità della vita di coloro che partecipano all’opera di creazione materiale od intellettuale.
Etica come cambio di paradigma
Etica pertanto, vuol dire passare dal paradigma dell’efficienza a quello dell’efficacia.
Perché l’efficienza è implacabile, fredda e spietata. Essa non guarda in faccia a nessuno, è come una falciatrice che brutalmente taglia l’erba.
L’efficacia, invece, è come l’arte della potatura del bonsai: immagina la futura direzione della crescita del fusto ed opera in funzione dell’obiettivo rispettando i tempi di crescita della pianta.
A nostro avviso, di questo nuovo spirito dovrebbero essere permeate le organizzazioni, ovvero di creare luoghi il cui fine è quello di crescere ed evolversi in continuazione e di fare anche qualcosa un po’ meno scontata: ovvero di riportare l’armonia tra cielo e la terra e quindi, tra coloro che con i propri ruoli e responsabilità, concorrono alla trasformazione di un prodotto o di un servizio.
(Seconda puntata- fine)
Tutte le foto (meno quella di Jung) sono di Pixabay
Per saperne di più:
Massimo Biecher (2014), Leadership ed emozioni. Pubblicato sul n°246 della rivista Nuova Atletica
Gian Piero Quaglino (1996), Psicodinamica della vita organizzativa, Raffaello Cortina editore
Aldo Carotenuto (2003), Il tempo delle emozioni. Bompiani
Hertzfeld, Andy (2005), Revolution in the Valley: The Insanely Great Story of How the Mac was Made. Oreilly
Stephen Covey (1989), The seven habits of highly effective people. Free Press
Robert Piersig. (1988), Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta. Adelphi
Lindholm, F. Stokholm, L. Previ (2012): Lego story. Egea.
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