di Lisa de Luca. La teoria della reincarnazione secondo Platone. Per il grande filosofo greco l’anima, che è immortale, si incarna dopo aver scelto nell’aldlà la vita futura
“Conoscere è ricordare”. Platone non ha dubbi in proposito. E, infatti, il filosofo sostiene la teoria della reincarnazione, o meglio della metempsicosi; fatto strano, se vogliamo, dal momento che Platone è considerato uno dei massimi esponenti della filosofia greca antica e la reincarnazione era sostanzialmente estranea alla cultura, alla religione e anche alla sensibilità greca.
Fatto strano solo fino ad un certo punto, dato che Platone soggiornando in Egitto ebbe modo di conoscere molto di quanto proveniva dal mondo orientale dove, invece, la reincarnazione – pur con le sue diverse declinazioni – era ed è ben nota e accettata non solo nei testi filosofici e spirituali, ma anche nella mentalità comune.
Nel “Menone”, Platone sostiene l’immortalità dell’anima
L’opera in cui, peculiarmente, Platone affronta il tema è certamente il Menone, dove Socrate ci dice che l’anima è immortale. “Essa ha un suo compimento – che si dice morire – talora invece nasce di nuovo, ma non perisce mai. L’anima, dunque, è immortale e più volte rinata, avendo veduto il mondo di qua e quello dell’Ade, in una parola tutte quante le cose, non c’è dubbio che abbia appreso”.
A sostegno di ciò, segue la famosa “prova dello schiavo”, nella quale Socrate dimostra come sia possibile, attraverso un’adeguata e opportuna guida, far ricordare alcune importanti proprietà di un triangolo ad uno schiavo, ovvero ad una persona che certamente non aveva avuto modo di studiare e al quale, di sicuro, nessuno aveva insegnato la geometria.
Il magnifico “Mito di Er”
Ma non è questa l’unica occasione in cui il filosofo affronta l’argomento: citiamo, ad esempio, le “prove dell’immortalità dell’anima” esposte nel Fedone, il dialogo che narra l’ultima giornata di vita di Socrate e il magnifico “Mito di Er”, contenuto nel Libro X della Repubblica, dove un guerriero di nome Er si risveglia dopo molti giorni di “morte apparente” e fa una dettagliata descrizione del viaggio che ha compiuto nell’aldilà. Sorprendenti ed emozionanti le analogie tra il racconto delle diverse giornate passate da Er nel mondo di là e alcuni passi del Bardo Todol che descrive i passaggi che l’anima si trova ad affrontare una volta lasciato il corpo.
Nell’aldilà le anime scelgono la prossima vita
I riferimenti non si fermano qui e gli spunti d’interesse sono molteplici. Vediamone alcuni.
Il primo è certamente quello relativo al fatto che l’anima, prima di “scendere” in questo mondo, sperimenta tutta una articolata situazione per scegliere la vita che dovrà poi vivere di qua.
Il Mito di Er dettaglia approfonditamente che ci sono molte anime in attesa di reincarnarsi e, di fronte a loro, sono esposte molte “vite”, tra le quali le anime dovranno scegliere. L’ordine di scelta è stabilito da un sorteggio: questo, tanto a noi quanto alle anime che stanno aspettando il loro turno, sembra un’ingiustizia, pensando che il primo a scegliere avrà molte più opzioni dell’ultimo.
Ma Platone, nella risposta all’obiezione, è delizioso e raffinatissimo e, ancora una volta, dubbi non ne ha: “Non vi otterrà in sorte un dàimon, ma sarete voi a scegliere il dàimon. E chi viene sorteggiato per primo scelga per prima una vita cui sarà necessariamente congiunto. La virtù è senza padrone e ciascuno ne avrà di più o di meno a seconda che la onori o la spregi. La responsabilità è di chi sceglie; il dio non è responsabile.”
La scelta viene fatta in base alla propria virtù conoscitiva
In questo passo, il tema interessante è la responsabilità individuale e il fatto che la scelta avvenga in base alla “virtù” che, nella filosofia greca antica, non ha la connotazione morale (né, tanto meno, moralistica) che le attribuiamo noi, ma attiene alla sfera conoscitiva. Cioè, in sostanza, chi più e meglio sa meglio sceglie.
E per Platone “sapere” e “conoscere” non significa solo conoscere razionalmente, con mente matematica e puramente logica, ma “sapere” con tutto il nostro essere, in un connubio di corpo-anima-mente, di cervello sinistro e destro, o con terminologia moderna, di “intelletto” e “intuizione”. Insomma un “conoscere” che è anche un “essere” e che niente ha a che vedere con la lettura che è stata poi data di un Platone dualistico, che avrebbe spaccato l’essere umano, che l’avrebbe condannato alla separazione del corpo dall’anima.
La reincarnazione come metafora
E non ha nessuna importanza “credere” o meno alla reincarnazione, per poter afferrare il senso delle parole del filosofo. Se sposiamo la teoria della reincarnazione, possiamo tranquillamente seguire il discorso alla lettera, vedendo effettivamente che, nell’aldilà, accadono delle cose che poi avranno riflesso sull’aldiquà.
Tuttavia, chi non crede può considerare la reincarnazione in maniera metaforica (o simbolica): l’aldilà, dove avverrebbe il passaggio e la scelta, non sarebbe altro che la profondità di noi stessi, ora chiamato inconscio, ora chiamato Sé Superiore, o in altri modi.
L’inconscio collettivo, un serbatoio di memorie accessibile a tutti
Ma se anche le Idee fossero simboliche come la reincarnazione, il succo della questione non muterebbe. Se le Idee fossero gli Archetipi in accezione junghiana – come già è stato da più parti ipotizzato – rimarrebbe comunque valido il principio secondo il quale è per noi possibile accedere ad un sapere più grande di noi, che ci trascende, che sta oltre.
A questo proposito, sposo completamente la tesi di Manuela Pompas, secondo la quale la regressione nelle vite passate mantiene comunque il suo valore di autoconoscenza – siano le vite passate vere o presunte.
D’altro canto, non mancano, tanto in Occidente quanto in Oriente, numerosi riferimenti a “serbatoi” di sapere, di memorie, che sarebbero a disposizione di tutti, a patto di conoscere i metodi per accedervi, peraltro declinati attraverso molte e diverse tecniche.
I registri akashici e l’intelletto separato di Averroè
Solo per citare alcuni esempi: i registri akashici, il mundus imaginalis di cui parla Corbin, il noûs di cui si parla ne Il Vangelo di Maria, una facoltà che permette l’accesso ad un medio mundo che non è affatto irreale, ma che non è coglibile con le facoltà cosiddette “ordinarie”.
E che dire dell’interpretazione che diede Averroè riflettendo sull’intelletto separato di Aristotele, arrivando a teorizzare che le singole conoscenze che gli uomini ricavano dall’esperienza si conservano in un intelletto unico, visto come l’intelletto della specie umana? Questo intelletto della specie si perfezionerebbe sempre di più man mano che, nella storia dell’umanità, si acquisiscono nuove conoscenze.
(1° puntata – continua)
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