di Silvia Leghissa. Dopo Hiroshima, Nakasaki, Chernobil, Fukushima, la vita è continuata. Ma da questi eventi non abbiamo imparato niente?
Sono le otto e un quarto del mattino. Una donna è seduta sui gradini di un palazzo, attendendo l’apertura della sua banca. Forse deve versare qualche soldino o prelevarlo per fare la spesa.
Una bambina gioca per strada. Salta la corda nell’attesa che arrivi qualche amichetto. È agosto, niente scuola per un po’, i compiti possono attendere.
Lì vicino, una bicicletta è appoggiata alla parete di una casa. C’è anche una scala a pioli. Servirà per qualche lavoro sul tetto. Non c’è ancora l’operaio. Forse è quell’uomo con il cappello che sta avanzando a passo spedito.
Little Boy e Fat Man
Tra un po’ arriveranno i due americani, Little Boy, il ragazzino, e Fat Man, il ciccione. Hanno dei nomi goliardici, da personaggi dei fumetti o da protagonisti di una sit-com, di quelle con la risata di sottofondo, con gli intrecci costellati di equivoci che si risolvono sempre a tarallucci e vino.

Little Boy e Fat Man sono davvero delle star conosciute in tutto il mondo, tuttavia niente affatto simpatiche. Sono le due bombe atomiche, sganciate a tre giorni di distanza sulle due città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki, assassine spietate, protagoniste di alcune delle peggiori pagine della storia contemporanea .
Un monito per non dimenticare
Sono le otto e un quarto del 6 agosto 1945. Little Boy, il ragazzino, compare per primo. Viene sganciato su Hiroshima dal bombardiere Enola Gay, esplodendo a 580 metri dal suolo. Uccide all’istante decine di migliaia di persone, ferendone chissà quante altre. Tre giorni dopo è la volta del grassone, che miete altrettanti morti, altrettanti feriti.
Nessuna pietà per gli uomini, né per le donne o per i bambini. Nessuna pietà per le piante e per gli animali. Non per le case, per i templi, per i giardini e le scuole.
Il tempo si è fermato. Lo dimostrano gli orologi mezzi liquefatti recuperati un po’ ovunque per le città. Le loro lancette non si muovono da allora: un monito per non dimenticare che esiste anche un tempo dell’orrore.
Le ombre nucleari e gli Hibakusha, i sopravvissuti
Della donna non è rimasta che l’impronta impressa sulla scalinata dell’istituto di credito. Mitsuno Ochi si è disintegrata lasciando, di se stessa, solo un’ombra. È così anche per la bambina: la sua immagine sta ancora saltando la corda mentre aspetta qualche amichetto che non arriverà mai. Sul muro della casa lì accanto, le sagome della bici e della scala a pioli impresse sulla parete, così come quella dell’uomo con il cappello. Chissà dove si stava dirigendo.
Ombre impresse sulla pietra, ombre senza corpi, conservate al Museo della Pace, nel Parco della Pace di Hiroshima. Ombre di anime che non hanno fatto in tempo a capire, a salutare, a pregare. A vivere. Altre ombre si muovono nelle città. Le chiamano Hibakusha, i sopravvissuti.
Di loro si sa grazie alla Genbaku bungaku, la letteratura della bomba atomica. Ne parla Sadako Kurihara nel 1945, quando scrive “Facciamo nascere una nuova vita”. Nella poesia si racconta di una vecchia ostetrica che, tra le macerie di un palazzo distrutto, aiuta una donna a partorire, morendo non appena il bambino viene alla luce. Il pianto di un bimbo appena nato: un suono di vita, il simbolo della rinascita. Una speranza che emerge dalle macerie di anime devastate. Un vagito che spezza il silenzio assordante della morte.
La vita è più forte
Hibakusha, “coloro che non si suicidarono nonostante avessero tutte le ragioni per farlo; che hanno salvato la dignità umana in mezzo alle più orrende condizioni mai sofferte dall’umanità”. Così li racconta Kenzaburo Oe, (foto a sin.) premio Nobel per la letteratura.
Gli Hibakusha vivono nel corpo, ma la loro anima fa ancora fatica a riemergere da quell’inferno vissuto in terra per mano di altri esseri umani. Sono stati colpiti dalla sindrome atomica, una forma di depressione caratterizzata da un senso di solitudine popolato da incubi e da idee suicidarie.
Una tristezza profonda, scatenata dai ragazzi stranieri e incrementata dai loro stessi conterranei che, temendo di essere contagiati dalle radiazioni da loro assorbite, li hanno emarginati. Ma loro resistono. Perché la vita è più forte.
Altri sopravvissuti sono riemersi dall’inferno. Sono gli Hibaku Jumoku, gli alberi rasi al suolo dalla deflagrazione. Erano dati per spacciati, invece sono rinati. I loro germogli sono affiorati dalle macerie e sono ancora lì, come il vecchio salice piangente, l’albero più vicino all’epicentro dell’esplosione. In piedi da allora, ha deciso di non mollare, nonostante tutto.Di Little Boy e Fat Man non si è saputo più niente, ma il loro ricordo è vivo nella coscienza collettiva. Un ricordo che si risveglia e anima incubi antichi e inquietanti.
La foresta rossa
È il 26 aprile 1986. Altri echi di morte, ancora radiazioni.
A Chernobyl, in Ucraina, esplode il reattore 4 della centrale nucleare. La nuvola radioattiva si espande, contaminando vaste aree intorno alla centrale. Una nuova strage che non risparmia nessuno. La foresta circostante si fa rosso fuoco. Tutti i pini silvestri muoiono all’istante, bruciati dall’esplosione.
La zona viene interdetta e nessuna persona non autorizzata può più mettervi piede. Nonostante ciò, le radiazioni causano morti e malattie a chilometri di distanza. È una tragedia. Vengono compiuti i primi studi sulle alterazioni genetiche negli animali. C’è un moltiplicarsi di tumori nelle più svariate forme e un aumento delle più orribili malformazioni che colpiscono i nuovi nati.
Alcune specie di uccelli mostrano un restringimento del volume del cervello, una compromissione della fertilità e una riduzione della longevità. Rischiano l’estinzione.
La vita, tuttavia, è più forte. Negli anni successivi, la zona di esclusione, che copre un’area di circa 30 km dal punto dell’ esplosione, inizia a ripopolarsi. La biodiversità cresce al punto che compaiono inaspettatamente creature come il visone, la lontra, l‘orso, il lupo grigio e l’aquila di mare coda bianca. Non si vedevano da anni. Anche la flora si fa rigogliosa.
Altri Hibaku Jumoku riprendono a germogliare. Sono le foreste di pioppi e di betulle aldilà della zona rossa. Investite dall’onda nucleare, riescono a sopravvivere. Forse usano antichi meccanismi biologici per proteggersi dalle radiazioni, così come avveniva in un lontano passato, quando sulla Terra i livelli di radioattività erano più alti di adesso.
Ancora radiazioni
Dopo Hiroshima, Nagasaki e Chernobyl, è la volta di Fukushima. L’11 marzo 2011, un terremoto causa uno tsunami che investe la centrale nucleare giapponese. Ancora morte e distruzione. Le radiazioni vengono assorbite dalla terra e dall’acqua ed entrano nella catena alimentare. I livelli radioattivi sono altissimi, sia nelle zone di esclusione che nelle aree aperte. Sembra che il materiale radioattivo continui a fuoriuscire dalla centrale, riversandosi nel mare. Ancora oggi. La contaminazione durerà per secoli, ipotizzano gli scienziati. Chissà con quali effetti, si chiedono tutti.
Ed ancora, 8 agosto 2019, un’altra esplosione, in Russia. È la volta di un missile nucleare nella base militare di Nyonoksa. Un’altra Chernobyl, un’altra Fukushima.
“Quando l’ultimo albero sarà stato abbattuto, l’ultimo fiume avvelenato, l’ultimo pesce pescato, l’ultimo animale libero ucciso, vi accorgerete che non si può mangiare il denaro” (Orso in Piedi. Sioux).
La Cerimonia delle lanterne galleggianti.
6 agosto. Alle otto e un quarto i rintocchi di una campana riecheggiano per tutto il Parco della Pace di Hiroshima. Segue un minuto di silenzio. Un minuto di preghiera per chi se n’è andato lasciando un’ombra sull’asfalto.
Lì vicino, degli alberi eroi, gli Hibaku Jumoku, i sopravvissuti, onorati e rispettati dall’intero popolo nipponico. I loro semi sono piantati in tutto il Giappone e regalati alle diverse nazioni come simbolo di pace, come messaggio di speranza. Sono presenti altri eroi, gli Hibakusha, i testimoni dell’orrore. Urlano con forza al mondo intero di smantellare l’arsenale nucleare. Lo fanno ogni anno, da quell’anno in cui rimasero feriti, nel corpo, nell’anima. Non hanno mai smesso di sperare. Nonostante tutto.
Un solo raggio di sole…
Quando cala la sera, centinaia di lanterne di carta colorata vengono fatte fluttuare sul fiume Motoyasugawa.
Le luci delle lanterne galleggianti guidano i defunti nell’aldilà. Quei defunti tornati un’altra volta a salutare i loro cari. Di nuovo devono andarsene, ma tutti sanno che torneranno. Lo fanno ogni anno, richiamati dalla luce delle preghiere di chi è rimasto e continua a sperare.
Perché la vita è più forte! E come ci ricorda san Francesco, un solo raggio di sole è sufficiente per cancellare milioni di ombre…
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