di Silvia Leghissa. Stralci di memorie dell’infanzia: l’odore della carta dei quaderni, l’amore per la natura e per un abete, che si inchinava al suo passaggio
L’odore delle gomme da cancellare, quello delle scatole di latta delle matite colorate, dei pennarelli nuovi e dei pastelli di cera. Odori.
L’odore della carta dei quaderni impilati uno sull’altro sugli scaffali della cartoleria. Ne prendo uno in mano, quello verde, chiudo gli occhi e lo annuso. Mi riporta indietro nel tempo. Dei flashback della prima elementare.
Matite, quaderni, odori… ricordi di scuola
Sono in seconda fila, seduta al mio banco accanto alla finestra. Davanti a me, una matita, una gomma e un quadernino del colore della senape su cui si stagliano, indefinite, sagome di un rosa antico, contornate di una fascia rosso bordeaux. Nessun pupazzo, nessuna scritta. Solo forme rococò non urlanti dai colori pastello, tenui e rilassanti. Apro il quadernino. È a quadretti, quelli grandi, ed è vuoto, senza segni, senza ricordi. Sulla lavagna di ardesia, massiccia e spaventosamente nera attaccata al muro di fronte, vola bianca un’ape stilizzata. Accanto a lei, una lettera moltiplicata per 4. La A, la prima, quella più importante di tutte, scritta 4 volte in 4 forme diverse, in corsivo e in stampatello, in minuscolo e in maiuscolo.
Una voce severa. La vecchia maestra impone la prima stesura con la matita. Invita a scrivere bene, perché i fogli non vanno sprecati. E se una gambetta va fuori posto o le sfere diventano troppo quadrate, si cancella e si riscrive, perché ogni foglio è sacro; ogni quaderno è un albero che si è fatto dono per permettere a ciascuno di noi di imprimerci sopra il nostro imparare.
Ho un albero tra le mani
Ho un albero tra le mani, un albero che accarezzo con la matita. Sto costruendo a fatica il mio primo ricordo scritto: una A in stampatello e intanto risuonano nella mia testa le parole della vecchia maestra. Racconta di quell’albero che ha scelto di regalare la propria carta a ciascuno di noi. Me lo immagino il mio, alto e massiccio, con una zip lungo il fianco, lungo tutta la corteccia. E penso che, se schiudo la lampo, trovo una risma di fogli arrotolati, già pronti per l’uso. Basta sfilarne uno alla volta. Ne prendo quanti mi servono, e poi richiudo la zip.
Una vocina di un bimbo chiede alla maestra, il suo quaderno che albero è. Una betulla, oppure un faggio. Non il mio, che è un abete, il più bello di tutti.
Sorrido dei miei ingenui ricordi e riapro gli occhi.
La canottiera di carta di giornale
Sto cercando un quaderno per scrivere i miei pensieri. Ne prendo uno di carta riciclata e per istinto annuso anche quello. Ha lo stesso odore di mio nonno, quel vecchio nonno che aveva la pelle del viso del colore del cuoio. La faccia bruciata dal sole e le suole consumate per le ore passate a gironzolare.
Per riscaldarsi d’inverno, si ricopriva di fogli di giornale, che nascondeva sotto la camicia. E quando camminava, scricchiolava.
Pensavo, bambina, che la canottiera di carta servisse per leggere nei momenti di noia. In attesa nello studio del dottore, il nonno avrebbe estratto una pagina alla volta, e chissà come l’avrebbe risistemata a lettura finita. Oppure avrebbe messo i fogli distesi sul muretto della via, per sedervisi sopra nel caso fosse stato stanco di camminare.
Invece, era per il freddo. Un giorno il nonno me lo spiegò. Ogni foglio di giornale è il dono di un albero che ci permette di riscaldarci durante l’inverno.
Così, presi due pagine di giornale e ci avvolsi le mani, che infilai dentro ai guanti di lana a forma di manopola. Quel giorno non sentii il freddo sulle dita, e ringraziai il mio abete, il più caldo di tutti.
Washi: patrimonio dell’umanità
Afferro il quaderno con una geisha cinese sulla copertina. Mi viene in mente la carta di riso che usa la mia amica quando si esercita con gli ideogrammi giapponesi. Il washi, fatto di fibre di gelso e di bamboo e di petali di rose. È una carta pregiata, mi dice lei, e non va mai sprecata. È una carta della tradizione, antica e preziosa, usata per l’arte della calligrafia, per dipingere, per l’ikebana. Così preziosa che è stata inserita tra i patrimoni orali e immateriali dell’umanità dell’Unesco, in compagnia dei pupi siciliani e dei cantastorie kirghizi, del teatro delle ombre cambogiano e della dieta mediterranea. Patrimonio dell’umanità: nei miei pensieri ci sono tutti gli alberi del mondo. Ed anche lui, l’abete, il mio amico, il mio tesoro.
La foresta di violini
Continuo a guardare la distesa interminabile di quaderni impilati. Ne prendo uno con il pentagramma. Mi viene d’istinto di avvicinarlo all’orecchio. Mi pare di sentire i solfeggi cantati durante le prove del coro. E l’entusiasmo della maestra che ci racconta della foresta dei violini della Val di Fiemme.

La foresta di Paneveggio è la casa dei violini. Stradivari vi cammina in punta di piedi, sfiorando con le dita il legno degli abeti rossi plurisecolari. Lo vedo poggiare l’orecchio su ognuno e trattenere il fiato per intercettare impercettibili vibrazioni.
Abeti di risonanza, con canali linfatici simili alle canne degli organi e un legno elastico, che si trasforma in una cassa armonica perfetta. Dopo averli auscultati, il maestro liutaio ne ode il canto facendo roteare i tronchi giù dalle montagne. Li sceglie così i suoi violini perfetti.
Echi di archi non ancora nati, di musiche silenti che soffiano tra i rami di una foresta incantata. Violinisti di legno che aspettano, muti, in attesa di farsi toccare per riprendere a vibrare. Basta una carezza per farli suonare. Il mio abete è un violinista. Io lo carezzo e lui suona per me.
Legno benedetto
Compro un quaderno con la carta ruvida, senza righe, né quadretti. Di quelli che vanno bene sia per scrivere che per disegnare. Prendo il pennino nero, quello con la punta più sottile, dal portapenne della mia scrivania. Cerco di riordinare i miei pensieri, per esporli con tratto elegante, ma non ne annoto nemmeno uno. Ogni foglio è sacro e ogni parola va meditata. Forse, prima di scrivere, bisognerebbe pregare, come fanno gli iconografi nei riti che precedono la stesura delle icone. Immagini sacre preparate nella preghiera, dove le tavole su cui vengono tracciate sono considerate la dimora di Dio. E per questo benedette.
Sia benedetto il larice, il tiglio e l’abete, il mio abete.
Il bambino e la gru
Il cestino della differenziata è pieno di fogli accartocciati. Li ho gettati io. Sento la vergogna salire: i fogli sono sacri e lo avevo dimenticato. Provo a rimediare al sacrilegio commesso. Ne prendo un paio, quelli che non ho strappato. Li stendo con le mani.
Cerco il libro di origami che mi ha regalato la mia amica. Ero brava con gli animali. Sfoglio le pagine e osservo la gru. La facevo spesso anni fa, attratta più dal significato simbolico che dall’immagine.
Tsuru, il simbolo della longevità e della salute. Una leggenda narra che ogni desiderio verrà realizzato facendo mille gru con gli origami. E migliaia di esse, di tutti i colori, fanno compagnia alla statua del piccolo Sadako Sasaki, che in piedi, sopra una bomba, fa volare una grande Tsuru.
Sadako morì di leucemia nel 1955. Aveva dodici anni, dieci dei quali passati a combattere gli effetti lasciati sul suo corpo dalle radiazioni della bomba atomica che esplose vicino alla sua casa. E nell’ultimo periodo della vita, da un letto di ospedale, realizzò il suo più grande progetto: mille gru di carta, che furono poste nel Parco della Pace di Hiroshima, dove ora si trova lui.
L’amore per la natura: nel mio bosco con gli amici abeti
Piego la carta, la ripiego, la piego ancora. Sono fuori allenamento, ma alla fine si intravedono le ali. E quando la finisco, mi viene un pensiero da annotare. Non voglio farlo qua, ma nel boschetto dove andavo da bambina.
C’era un abete, il mio abete, con la zip sul lato del tronco e i rami che si muovevano al vento. Mi salutavano al mio arrivo inchinandosi e rialzandosi e io mi sedevo di sotto, sulle radici. Sentivo l’odore della resina che colava sul legno. Lo stesso odore di adesso, la stessa resina di ora, uguale a quella di allora.
Meditazioni e ricordi inondano le pagine bianche del quaderno nuovo, che io annoto con una calligrafia ordinata. Perché ogni foglio è sacro; ogni quaderno è un albero che si è fatto dono per permettere a ciascuno di noi di imprimerci sopra i propri pensieri.
E quando ho finito, ringrazio il mio abete, lo abbraccio e gli lascio un regalo. Una piccola gru di origami con le ali spiegate, che appoggio in una fessura della corteccia. Gli prometto di portargliene un’altra, e un’altra ancora, con i fogli che non getterò più.
Sento un soffio di vento leggero tra i rami, un brivido lungo la schiena. È bastata una carezza, una promessa, e lui, il violinista di legno, suona ancora una volta per me.
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