di Renata Pompas. Fino al 28 marzo si può ammirare presso la Galleria San Fedele di Milano “La via dolorosa” di Mimmo Paladino
Un ciclo di formelle che l’artista campano aveva realizzato per la cappella universitaria del Centro pastorale di Milano “Carlo Maria Martini” nel 2015 e che ora vengono presentate in continuità con le altre opere dell’artista – Sacro Sud ed Ex voto – presenti nel Museo San Fedele, nella chiesa omonima.
L’esordio nella Transavanguardia
Mimmo (Domenico) Paladino nasce a Paduli (Benevento) nel 1948. Alla fine degli anni Settanta il critico d’arte Achille Bonito Oliva con il termine “Transavanguardia” definisce la tendenza artistica di un gruppo di alcuni giovani pittori italiani, di cui teorizza il ritorno alla manualità e alla gioia del dipingere e da allora inizia un sodalizio con l’artista. Nel gruppo Paladino si distingue per le immagini elegantemente primitive, semplici ma sofisticate, che paiono citazioni di un’arte arcaica. Molti dei suoi soggetti sono maschere, teschi e animali stilizzati. Nella sua lunga e ricca di riconoscimenti carriera artistica Paladino si è affermato come uno dei protagonisti della cultura figurativa italiana del Novecento; ha realizzato disegni, calcografie, incisioni, dipinti, sculture, installazioni, scenografie.
La via dolorosa
La mostra – curata dal direttore della Galleria San Fedele di Milano Andrea Dall’Asta, insieme a Raffaele Mantegazza, professore di Pedagogia interculturale – presenta la Via Crucis, la lunga strada verso il monte Golgota percorsa da Gesù dopo la sua condanna a morte, ricostruita e commemorata dalla devozione in 14 stazioni che ne ricordano le tappe più significative. L’artista le interpreta con pennellate veloci, essenziali, mai descrittive ma piuttosto evocative: cenni di una storia antica ma eterna, che pare ripetersi nella fissità del gesto congelato nella rapidità del segno.

Ciascuna formella è accompagnata da una frase estratta dal testo di una canzone, scelto da Raffaele Mantegazza che firma insieme a Mimmo Paladino il testo “Via Crucis” (Edizioni Eehoniane, Bologna, 2018), con prefazione di Andrea Dall’Asta.
Per esempio la I stazione, “Gesù è condannato a morte”, è accompagnata da un testo estratto da “Nebraska” di Bruce Springsteen: “Mi hanno dichiarato indegno di vivere,/ hanno detto che la mia anima/ doveva essere gettata in quel grande vuoto”. Mentre quando nella IV stazione “Gesù incontra sua madre” sono le parole di Eric Clapton in “Tears in Heaven”: “Mi terresti la mano se ti vedessi in Paradiso?/ Mi aiuteresti a stare in piedi se ti vedessi in Paradiso?/ Devo essere forte e andare avanti,/ perché so di non poter stare qui in Paradiso”. Sono invece di Franco Battiato, da “Prospettiva Nevskij” quelle della V stazione “E il mio maestro mi insegnò/ com’è difficile trovare l’alba/ dentro l’imbrunire”. Il monito di Boris Vian in “Le déserteur”: “Se mi perseguirete avvisate i gendarmi che io non ho armi e che possono sparare” sono per l’XI stazione quando “Gesù è innalzato sulla croce”. Quelle struggenti di Fabrizio de André ne “Il testamento di Tito” sono il grido straziato di “Gesù muore in croce” della XII stazione: “Io nel vedere quest’uomo che muore/ madre, io provo dolore/ nella pietà che non cede al rancore/ madre, ho imparato l’amore”.
L’oro trascendente

Come ha scritto Andrea dall’Asta: “Con grande vigore formale e cromatico, ogni formella rimanda a un’archeologia della memoria, a un mondo costituito di tracce e di simboli ancestrali. L’artista interpella il passato, perché possa rivelare oggi il senso della vita”.
Due sono i colori adoperati dall’autore: oro e nero, luce e mistero, sacri e profano, trascendenza e fisicità, eternità e morte materiale. Mimmo Paladino ha scelto per le sue 14 formelle (29,7 x 42 cm. Cad.) la forma ad arco, che ricorda la tradizionale rappresentazione pittorica delle Tavole della Legge, e le ha fatte realizzare in ceramica ricoperta da lamine di oro zecchino e invetriata, su cui ha poi dipinto. Un oro che rende bidimensionale e astratta la superficie pittorica e mentre allude alla gloria e alla presenza del divino, ne amplifica la luce.
Fin dall’antichità l’oro – inattaccabile da ossidazioni e dagli acidi e dunque simbolo di incorruttibilità ed immortalità – fu considerato la sostanza del principio divino creatore, quello che in tutte le cosmogonie è l’irrappresentabile, se non nella sua manifestazione epifanica, simbolo dell’Eterno e delle virtù soprannaturali.
Il Signore stesso impartì a Mosè le istruzioni per la costruzione dell’Arca dell’Alleanza ordinando: “la rivestirai d’oro puro” [Esodo XXV 11-31] e quando re Salomone costruì il grande Tempio in pietra “rivestì l’interno del tempio in oro purissimo […] e rivestì d’oro anche tutto l’altare che era nella cella” [I Re, VI passim]. Un oro invetriato, quello di Paladino, che pare rilucere a specchio nelle sue stesure che paiono acquerellate.
Il nero doloroso

Su questa superficie splendente Paladino interviene con un gesto rapido e sicuro con un doloroso e denso inchiostro nero che delinea ombre criptiche, la cui decifrazione rimanda a primordiali situazioni solo immaginate.
Il filosofo austriaco Rudolf Steiner nel 1921 definì il nero come il colore ”estraneo alla vita, che è ostile alla vita”, concetto ripreso dallo psicologo svizzero Max Lüscher che nel 1949 scrisse che “il nero rappresenta il massimo confine oltre cui la vita cessa”. Quale colore dunque per rappresentare l’agonia e la morte di Gesù fattosi uomo?
Il dolore si addensa in grumi emotivi in cui il nero è ora corposo, ora fluido, ora screpolato, ora sgocciolato in drammatici schizzi irregolari la cui potenza è moltiplicata dall’oro.

La quattordicesima stazione
Nell’ultima stazione il dolore si scioglie e lo splendore della superficie, con un’apertura sull’incavo scuro dell’interno, attesta l’avvenuta risurrezione dopo la deposizione del corpo di Gesù nel sepolcro, ora vuoto. Una formella che da superficie bidimensionale e lucente come un’icona bizantina si materializza in una scultura, tanto essenziale quanto ricolma di trascendenza ed emozione.
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