di Zuleika Fusco. Scopriamo il linguaggio del cibo, che riveste un valore affettivo, psichico e relazionale: il modo di nutrirsi rivela chi siamo e come stiamo.
Avete notato quanto in questo periodo il mangiare sia diventanto uno dei principali argomenti di conversazione? Quanto riempia giornali e programmi televisivi? Constatare quanta importanza rivesta nella nostra quotidianità, non solo in termini di bisogno vitale, ma anche da un punto di vista relazionale, ha innescato in me il desiderio di indagare approfonditamente il legame tra psiche e cibo. E dopo anni di studio e di lavoro sul tema è sorto il Master in Counseling Gastronomico, la cui IV edizione partirà il 13 ottobre 2018 a Pescara.
Cibo ed emozioni

Il cibo ha un valore indiscutibile nella nostra vita, certamente per la sussistenza, ma anche per il suo valore affettivo, psichico e relazionale. Genera sensazioni ed emozioni e d’altro canto subisce le nostre condizioni interiori. Spesso infatti anche nel linguaggio comune siamo soliti creare collegamenti tra stati emotivi e nutrimento. Quante volte, se proviamo dolore, ci si chiude lo stomaco; se siamo ansiosi, mangiamo tanto; se siamo soddisfatti, festeggiamo a tavola… Il cibo acquisisce quindi una valenza simbolica profonda. Se non siamo in equilibrio, abbiamo con esso un cattivo rapporto, rifiutandolo, assumendo dannose abitudini o generando eccessi. Se lo amiamo, ci piace condividerlo e renderlo parte delle nostre relazioni. Attraverso il cibo conosciamo e facciamo nostre le radici culturali da cui proveniamo e, nell’assaggio di alimenti diversi, facciamo esperienza del mondo.
Cibo come condivisione. O separazione

Quindi il cibo è un linguaggio. Aggrega o separa. Crea intimità. Mangiare in compagnia è un atto importantissimo, un rito che accomuna. Non a caso tanti momenti fondamentali della nostra vita sociale sono scanditi da un pasto comunitario. Le feste, i passaggi ad un nuovo status, le mediazioni d’affari…
Ma è anche uno specchio, che ci rivela la condizione esistenziale che stiamo vivendo. Attraverso il nostro modo di nutrirci raccontiamo di noi a noi stessi e al prossimo, riveliamo chi siamo e come stiamo. Per comprenderlo, ci basterà richiamare alla mente l’esempio di una persona anoressica che, attraverso l’astinenza e il rifiuto di cibo, esprime a se stessa e all’altro il proprio malessere senza bisogno di parlarne, poiché lo incarna. Il suo aspetto sofferente sarà il modo più efficace di trasmettere al mondo il suo messaggio.
Tante modalità a tavola: come mangiamo?

Per comprendere qualcosa di noi, possiamo quindi porci una prima importante domanda: come mangio?
Se consumiamo i pasti in maniera automatica, distratta, in mezzo alla confusione e nel turbinio di pensieri ed emozioni che riguardano altri aspetti della nostra giornata, la qualità del nostro nutrimento è bassa. Il cibo infatti non è solo fondamentale all’appagamento dei nostri bisogni fisici, ma è strettamente correlato anche alla nostra fame emotiva e si impasta delle energie con cui lo scegliamo, lo prepariamo, lo ingeriamo, lo condividiamo. E in questo ambito, tendiamo a coltivare tante cattive abitudini.
Per esempio, quante volte discutiamo mentre siamo a tavola o mentre seguiamo in televisione scene di violenza? L’ideale sarebbe pensare ai pasti come a momenti rituali nello svolgimento della nostra giornata e comprendere che, come ogni azione, dovrebbero essere curati e cominciare bene.
L’importanza dell’atteggiamento mentale

Lo stato in cui si prende il primo boccone è infatti estremamente importante. È quindi necessario prepararsi a farlo nelle migliori disposizioni possibili, perché è proprio il primo boccone a mettere a mettere in moto interiormente tutti gli ingranaggi. Non dimenticate mai che il momento più importante di ogni azione è il suo inizio: è questo a dare il segnale per la messa in moto delle forze, e queste forze non si fermano a metà strada ma vanno fino in fondo. Se inizierete in uno stato armonioso, tutto il resto avverrà armoniosamente.
Se pensiamo alle pratiche spirituali, alle tradizioni iniziatiche o religiose, non a caso troveremo che una consuetudine frequente è quella di pasteggiare in silenzio. Così anche nei nostri conventi, dove i monaci mangiavano zitti, mentre un confratello leggeva testi sacri. Il silenzio di fatto non è un vuoto, visto che in natura il vuoto non esiste, ma l’occasione di scegliere un pieno di qualità. Dovremmo cercare quindi di dare spazio a pensieri più elevati, mentre consumiamo il nostro cibo.
Mangiare come atto d’amore
Il senso di portare un’attenzione a ciò che stiamo facendo è radicare una reale presenza. È un modo di prenderci cura di noi stessi e di sviluppare una lucidità che ci accompagnerà per il resto della giornata, salvandoci dai meccanismi abituali che ci travolgono. Mangiare diventa un atto d’amore. Quel sentimento di rispetto e di garbo che possiamo portare a tavola diventerà la capacità di percepire il cibo ad un livello più profondo, meno istintivo e più emozionale. Arriverà a noi appagando i sensi, dall’olfatto al gusto, e restituendoci piacevoli sentimenti. L’amore investito diventerà l’amore di cui ci nutriamo.
Il cibo diventa quindi un potente mezzo di relazione con noi stessi. Ma la sua valenza relazionale è più ampia e si ricollega alle origini della nostra vita. Creerei un’equazione:
cibo:vita = madre:relazione E cioè: il cibo sta alla vita, come la madre alla relazione, proprio perché, quando nasciamo, il nostro bisogno di madre è assoluto.
È lei che dovrebbe fornirci il nutrimento necessario alla sussistenza, ma anche quell’affetto che è sostentamento per la psiche e che ci assicura un sereno sviluppo emozionale. La prima forte relazione della nostra esistenza è con lei. Nelle sue braccia impariamo a mangiare, in un’esperienza di fusionalità che ci rievoca le sensazioni della vita in pancia. In quei momenti, il sapore e il gusto del latte si integrano al calore del suo corpo, al suo profumo, al suo respiro. Il piacere è profondo e l’attaccamento è totale, eppure nell’atto di suzione del latte, compiamo il primissimo tentativo di autonomia. Percorso che procede nel tempo in una sempre maggiore affermazione della nostra personalità. E il cibo ancora ne indica gli accenti e ne scandisce i tempi. Già verso i due anni, infatti, siamo in grado di distinguere mamma da pappa, incominciando a scegliere cosa, quanto e quando mangiare. Chiaramente è ancora mamma a organizzare e regolare il nostro rapporto con l’alimentazione, ma un primo fondamentale passaggio di emancipazione è compiuto.
Il cibo è anche nemesi

Un contrappasso che da bambini impariamo a utilizzare per auto-regolare ciò che manca su un piano affettivo. Se nella prima fase della vita, infatti, mangiare significa istaurare una relazione profonda con la madre che si prende cura di noi e che ci dà piacere, quando percepiamo lei assente, spesso cerchiamo di compensare alimentandoci. In altri termini, ricerchiamo nel cibo accudimento e piacere originari.
Facciamo un esempio. Pensiamo ai momenti di vuoto affettivo. Quando siamo insoddisfatti della relazione che viviamo, ci viene istintivo cercare qualcosa di dolce, che riempia il nostro palato… o richiamiamo alla mente anche le immagini di tanti film americani, in cui vediamo la protagonista sconsolata che si lascia andare davanti al televisore e ad una vaschetta gigante di gelato da ingurgitare… in quei momenti di eccesso semplicemente ricerchiamo istintivamente proprio il senso di quell’identità, rivogliamo quella madre che, offrendoci cibo, ci nutre anche a livello emozionale, ci accudisce e ci regala piacere.
Il cibo diventa consolazione.

Quindi, se nutrirsi è sinonimo di vivere come di relazione, sarà necessario imparare ad avere una relazione equilibrata prima di tutto col cibo. Pertanto imparare a prendersi cura di sé attraverso il nutrimento diventa un percorso di autonomia affettiva. Intanto possiamo partire dal presupposto che, se da bimbi mangiare dalla mamma prevede un atteggiamento ricevente, quindi passivo, nutrirsi in modo consapevole costituisce l’opportunità di diventare attivi. Di comprendere cioè che possiamo scegliere cosa, con chi mangiare e rendere questa condivisione uno scambio, con noi stessi, se siamo soli e vogliamo regalarci qualità, con il commensale cui possiamo offrire il meglio di noi sia su un piano materiale che psichico. Buona conversazione o un delicato silenzio, gentilezza, accoglienza, disponibilità, riguardo, ma anche coopartecipazione nelle azioni della cucina e della tavola sono tutte forme appaganti di nutrimento, indispensabili per la vita come gli alimenti che mastichiamo.
Per saperne di più:
Master in Counseling Gastronomico
Aivanhov O. M, Lo yoga della nutrizione, Ed. Prosveta, Italia 2008
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