di Fabio Duranti. Un’antica leggenda indiana, legata a Maya, ci mostra il segreto dell’illusorietà dello spazio-tempo e delle esperienze terrene.
Durante i decenni passati con passione a sondare le tradizioni spirituali di tutti i popoli, mi sono imbattuto in racconti e leggende antiche, molto significative ed assai illuminanti. Quella che segue è una mia trascrizione fedele all’originale, di un breve racconto della tradizione induista, in cui viene spiegato al lettore, tramite immagini semplici ma incisive, il concetto forse non troppo chiaro della Maya cosmica. Oggi, grazie agli studi della fisica quantistica, è divenuta patrimonio comune la concezione dell’illusorietà del nostro universo: tutto è energia dinamica, niente è statico, ogni cosa nasce, si sviluppa, per poi ritornare nel grembo da cui è uscita. Sotto quest’ottica prettamente“metafisica, la materia stessa ci appare solida per una mancanza diretta di una visuale sottile. In realtà, ciò che consideriamo essere solido, è puramente una forza energetica ad uno stato lento e cristallizzato. Il velo di Maya ricopre ogni cosa e spetta ad ognuno sollevare questo velo per ricercare il nucleo della realtà che sottostà alla manifestazione concreta.
Narra un’antica leggenda indiana che nel mondo impalpabile di Brahma, al di là di ogni barriera spazio-temporale, nell’immensità dell’eternità quindi, un giorno uno dei suoi figli chiese a Brahma, reggitore di quei spazi paradisiaci, cosa fosse mai la sua Maya. «Ho sentito parlare spesso del potere miracoloso che crea i mondi e che è chiamata Maya, ma non riesco ad immaginarmela. Saresti così gentile padre da farmela conoscere?».
Brahma, il reggitore del paradiso più elevato in tutto l’universo manifesto, prese per mano il suo figliolo curioso e gli disse: «Vieni con me a prender un po’ di acqua».
Tutt’e due s’incamminarono lungo uno stretto sentiero e dopo qualche tempo entrarono nella piana secca di un fiume prosciugato. Il dio degli dei si sedette su di una roccia comoda come una poltrona e disse al figlio che lo accompagnava. «Caro ho sete, questo fiume è in secca, ma se avanzi tu da solo ancora un pochino, poiché sono stanco di camminare, troverai una fonte zampillante di acqua pura. Vai, prendine un po’ che io ti aspetto su questa roccia». L’uomo obbedì docilmente e continuò il cammino da solo.
Non è detto per quanto tempo durò il suo incedere, ma ad un tratto si ritrovò sulle soglie di una immensa foresta. Con in cuore ancora le dolci parole di Brahma suo unico padre, si inoltrò nella boscaglia, felice nell’idea di trovare l’acqua richiesta dal dio degli dei. Cammina, cammina, giunse in una radura piana, dove al centro di uno splendido giardino vi era una costruzione carina, ben fatta, un’abitazione modesta ma scintillante nella sua costituzione. Giunse sulla soglia della porta e bussò con grazia. Gli aprì un vegliardo dalla folta barba e gli occhi lucidi di saggezza.
Una lunga vita felice
Questi, vedendolo stanco per il lungo viaggio lo invitò ad entrare, lo fece sedere e gli diede del cibo, presentandogli nel contempo anche la sua unica figlia, una leggiadra fanciulla dai lunghi capelli neri e gli occhi seducenti come il diamante. Il figlio di Brahma dimenticò così a tale vista il perché si trovava in viaggio, dimenticò il suo unico padre e il suo paese di origine, innamorandosi subitaneamente della fanciulla. Il padrone di casa, uomo nobile, modesto e di buone maniere, decise di ospitare il nuovo venuto, offrendogli di lavorare nei suoi campi come contadino. Passarono molti mesi se non anni, e il vegliardo decise, visto l’indole pacifica dell’uomo, di dare in sposa la sua unica figlia ancora vergine all’uomo proveniente dal paradiso di Brahma. La felicità dell’uomo fu immensa: la vita in quel luogo gli stava donando ogni gioia e benessere.
La coppia ebbe così due figli e passarono molti anni, tutti sotto il segno della fortuna. Il vegliardo morì e lasciò in eredità all’uomo tutti i suoi averi, campi compresi. Passarono altri anni sereni e gioiosi e tutto filava liscio, i due figli erano docili ed obbedienti e la coppia andava perfettamente d’accordo. Un giorno però, nubi nere si presentarono all’orizzonte ed un forte temporale incominciò a riempire il cielo e la terra di fitta pioggia. Sembrava non finire mai quell’uragano, tanto che il fiume vicino incominciò ad ingrossarsi in modo allarmante. Dopo qualche giorno di panico e paura, il fiume straripò, inondando tutta la zona. La casetta in cui viveva la famiglia felice fu invasa completamente dall’acqua. In quel turbine inarrestabile, la donna perì quasi subito nel flusso selvaggio del fiume in piena. Preso dall’ istinto di sopravvivenza, l’uomo si caricò i due figli sulle spalle cercando una via di fuga per loro. Ma nella lotta contro le forze selvagge della natura, risultò perdente, e i due figli furono inghiottiti dalle acque, annegando in modo irreparabile. L’uomo fu preso così dallo sconforto e si abbandonò al suo destino non lottando più contro le acque del fiume in piena sempre più violente. Ma ad un tratto lo scenario mutò improvvisamente e tutto ciò scomparve dalla vista dell’uomo che si ritrovò, perfettamente calmo ed asciutto, davanti alla roccia in cui, sorridente si sedette Brahma all’inizio del suo viaggio lungo il letto arido del fiume. Il dio degli dei si rivolse a lui con un benevolo sguardo – dove sei stato caro? È già mezz’ora che sto aspettando che tu mi porti dell’acqua per placare la mia sete».
Torniamo nel mondo illusorio in missione
Questa antica storiella è molto educativa per il ricercatore spirituale ed indica come Brahma, sia in attesa che noi, suoi diretti figli, torniamo da lui dopo averci dato la missione di scendere nel mondo illusorio di Maya. Ricordiamo ai lettori che probabilmente il primo a parlare in occidente della Maya come base illusoria della realtà sia stato il filosofo tedesco Arthur Schopenhauer (foto a sin.). È bene poi sottolineare il fatto che l’illusorietà della Maya non vuol dire inesistenza, ma soltanto che il nostro mondo è perennemente in movimento in un nascere, crescere e perire incessante. Quindi, finché vivremo lontani dal nostro vero paese spirituale retto da Brahma, saremo soggetti ai capricci del destino. Per associazione, ricordiamo un altro concetto orientale, quello della danza cosmica chiamata Lila, in cui noi tutti siamo impegnati a ballare il gioco della vita, mossi dalla divinità più alta che per la maggior parte degli esseri rimane sconosciuta e velata. In tal senso si parla di “velo di Maya”, perché è la volontà divina che ci dona l’immenso privilegio di danzare la sua Lila cosmica, non tanto per un semplice piacere artistico, ma proprio per giungere alla fine a smascherare la sua Maya e, forti di questa esperienza, ritornare incolumi nella patria dell’anima, vera dimora dell’essere umano.
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