Il tappeto persiano è sempre stato un simbolo di cultura e di identità, un manufatto per circoscrivere e delimitare uno spazio di convivialità, di riposo e di preghiera. Un tempo – come ha scritto Francesco Anaclerio – nelle case i tappeti e i cuscini permettevano di occupare liberamente lo spazio in funzione delle necessità del momento, variandone la disposizione e utilizzandoli come seduta e come piani d’appoggio. Prodotti sui telai familiari dei villaggi più sperduti, o nei sofisticati laboratori di città che fornivano le committenze più esigenti, i tappeti persiani raggiunsero una qualità estetica a manifatturiera altissima, concentrando in un metro quadrato sino a 500.000 nodi di filati di lana o di seta, tinti in una gamma illimitata di colori naturali e disposti secondo un disegno preciso. Jalal Sepehr con le sue opere fotografiche mostra l’atavica tradizione del tappeto, immagine della cultura antichissima del suo Paese, per riflettere sul presente.
La fotografia come arte
Jalal Sepehr è nato a Teheran nel 1968, dove vive e lavora; ha iniziato a fotografare da autodidatta nel 1994, mentre viveva in Giappone. Al rientro è stato co-fondatore del sito Fanoos Photo, dedicato alla promozione della fotografia contemporanea iraniana (2003-2007) e ha cominciato ad esporre, ottenendo parecchi riconoscimenti. Attualmente oltre a svolgere la sua attività artistica insegna occasionalmente alla University of Media Applied Science ed è membro attivo della ‘Association Virtual Arts of Iran and Advertising & Industrial Photography Association of Iran’. A Milano ha esposto una serie di fotografie d’arte che ne definiscono il linguaggio poetico e lo stile narrativo e metaforico.
Una storia complessa, un esodo verso l’ignoto

La mostra As far as the eye can see ripercorre la sintesi poetica degli ultimi dieci anni del percorso artistico di Sepehr, attraverso 27 fotografie di grande formato (cm. 70X100 e 80×120) che raccontano la necessità di fuggire dai continui conflitti verso mete rassicuranti ma ignote, di cui non si conosce la destinazione. Apre la mostra Water & Persian Rugs (Acqua & tappeti persiani, 2004), in cui una fila di diversi tappeti stesi sul molo, tra cui ne spicca uno di fattura cinese al centro, forma un sentiero al termine del quale è seduto di schiena un uomo con accanto una valigia, pronto per un viaggio di cui l’orizzonte di mare aperto non mostra alcuna possibilità.
La serie Knot – Untitled 2011 (Nodo) comprende due opere: in una un tappeto Afshar – dalla tipica struttura elaborata dei villaggi della Persia sud-occidentale dove i piccoli laboratori annodano ancora i tappeti di lana secondo la tradizione nomade – è ripreso dall’alto e occupa quasi tutta l’immagine con i suoi disegni in rosso e blu su fondo chiaro, mentre ai suoi quattro lati tante mani lo stanno tirando, ciascuna verso la propria parte, rischiando di romperlo: una potente metafora della politica paralizzata e paralizzante.

Nella seconda opera di questa serie sono presenti invece due pile di pregiati tappeti Isfahan – le cui lavorazioni erano prodotte nell’antica capitale dell’impero – con elementi floreali dai colori tenui e freddi, a prevalenza azzurro polvere su fondo avorio – che sono stati ripiegati in modo da formare idealmente le pagine di un maestoso volume tessile. Al centro della composizione c’è un anziano del villaggio seduto a sfogliarli, come fossero pagine che raccontano la storia millenaria dell’Iran.
La serie Red zone – Untitled 2013-2015 (Zona di allarme) è formata da più opere in cui i tappeti, di fattura nomade o aulica, sono, come indica il titolo, a prevalenza rossa. L’artista li ha stesi uno dopo l’altro in modo da coprire tutta la larghezza di una strada sterrata che attraversa il deserto dell’Iran centrale, per formare nella loro sequenza un percorso infinito con cui narrare le sue storie. In un’opera il sentiero di tappeti appare libero, il cielo terso è percorso da un areo che è decollato senza ostacoli, ma a una più attenta osservazione si scopre che sta prendendo la rotta inversa. In un’altra una bomba (o un meteorite caduta dal cielo?) ha sfondato il tappeto che si vede in primo piano, creando un oscuro e profondo cratere profilato da bruciature. Anche quando il sentiero è sgombro, come appare in una terza opera della serie, il pericolo incombe all’orizzonte con una tempesta di sabbia che si sta avvicinando, minacciando di coprirlo completamente e farlo scomparire alla vista.
Un grande equilibrio formale e coloristico

Più evidente è il pericolo rappresentato in un un altro lavoro dal grande e pesante masso che occupa tutta l’ampiezza del sentiero e ostacola il cammino, formando una barriera insormontabile. Infine in un’altra opera si intravedono sullo sfondo di un lungo cammino di tappeti le sagome di una famiglia, che pare allontanarsi con i propri bagagli per un viaggio verso la libertà, sentiero che si rivela però condurli incontro all’ignoto.
La serie Color As Gray (Colore come grigio) è formata da tre lavori: un dittico Untitled – 2014-2016 in cui si vede nella prima parte una fossa rettangolare scavata nell’arida terra del deserto in attesa di accogliere un tappeto disteso al suolo al suo fianco, e nella seconda parte si vede il tappeto che è stato inumato: destino di una cultura che gli eventi più drammatici rischiano di cancellare? In Color As Grey, 1130 Victims (una delle poche opere con titolo) Sepehr compie una riflessione ancora più dolorosa ed esplicita: mostra l’immagine toccante di centinaia di scarpe abbandonate in riva al mare, tante quante furono a Gaza le vittime di guerra nel 2014, che formano una simbolica muraglia a ricordo di esistenze precarie a cui è stata negata la partenza.

Opere che che rivelano un grande equilibrio formale e coloristico, in cui la luce diffusa e avvolgente, senza centro, intesse una cromaticità morbida e rinascimentale, dalle ombre sfumate. Allusioni eleganti e poetiche alla storia di una raffinata e antica civiltà che oggi è oppressa da guerre, pericoli ed espatri, in una narrazione la cui qualità lirica soave contrasta con la tragicità del racconto e in cui lo svolgimento temporale pare bloccato, fissato per sempre in un attimo che è diventato eterno.
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