“Il mantra, ‘il perdono è l’ornamento dei forti’, ha dominato il nostro modo di pensare e ha creato una tenace immaginazione morale; nella sua accezione spirituale ha forgiato il modo umano di agire”. Inizia così Il dono del rancore (Sefer ed.), il saggio di Laura Tappatà, che ha insegnato psicologia Generale presso il corso di laurea in Scienze della Formazione Primaria dell’Università Cattolica di Milano. «Il titolo stesso suscita una reazione immediata in chi lo legge», le diciamo. «Ma com’è possibile sostenere che il rancore sia un dono?».
«Sono consapevole che affermare che il rancore è un dono sia una cosa insolita (che mi auguro incuriosisca i lettori) e una sfida intellettuale», afferma l’autrice (foto in basso, a sin. e l’ultima foto del testo). «Ci hanno sempre insegnato che perdonare è una virtù che esalta la fortezza umana, un atto che ci accomuna con gli angeli, un balsamo per il nostro benessere spirituale e fisico. Perdonare ha forti valenze morali e religiose documentate dalla centralità nei testi sacri e nella liturgia; nella politica è espressione di una giustizia liberata da qualsiasi forma di vendetta e rivendicazione; nella cultura possiede tutte le caratteristiche per diventare progetto educativo e formativo.
Non perdonare, invece, ci trascina in un giudizio morale negativo: cattiveria, invidia, rabbia e astio ci rendono sgradevoli e potenzialmente pericolosi. Il rancore evoca l’odore acre e disgustoso del rancido, si mescola con altri sentimenti da sempre considerati esecrabili. In ultima analisi: un confronto impari tra l’Angelo, simbolo del perdono, e il rancore, il Demone.
La sfida intellettuale che sta alla base di questo libro ci porta a compiere un passo indietro per guardare le cose da una prospettiva diversa e, con uno sguardo mutato, scorgere qualcosa che non si era visto prima. Così come il dono è una sorpresa, un regalo inaspettato, anche l’esercizio equilibrato del rancore può diventare uno strumento per raggiungere una maggiore consapevolezza personale, una forma di saggezza e di potenziamento mentale».
Domanda. Quali sono le tesi del libro?
Risposta. In primo luogo si deve riflettere con lucidità sulla vera essenza del perdono. Sono convinta che perdonare ciò che è scusabile, perdonabile e semplice da dimenticare, ciò che davvero non ci ha ferito profondamente, è sforzo lieve e non è il vero perdono. È una falsa consolazione e pura convenzione culturale.
L’argomentazione che ne consegue è che nella vita possiamo vivere offese imperdonabili e indimenticabili, progetti di vita distrutti, ferite e delusioni profonde che hanno fatto vacillare la nostra identità. Sono profondamente convinta che ci si possa impegnare in una ricerca, anche se lunga e faticosa, per trasformare la chimica della rabbia in energia costruttiva.
Provare rancore non significa odiare o cercare la vendetta, ma solo convivere con l’idea che certe ferite sono davvero imperdonabili. Significa onorare il dolore provato senza esibizionismi o vittimismi. Da donna e da filosofa mi sono chiesta se fosse davvero realistico continuare a pensare di poter risanare certe ferite con un perdono che fosse davvero autentico. Se vogliamo confrontarci con onestà intellettuale e con una mente liberata da condizionamenti culturali, morali e religiosi, la risposta è no.
Certo è che bisogna abbandonare le maschere del buonismo e mettere a fuoco la necessità di superare dicotomie vecchie e inutilmente soffocanti: bene e male, corretto e scorretto, virtuoso e malvagio.
D. Qualche indicazione per comprendere l’orientamento teoretico del libro? Perché cimentarsi con un argomento come questo?
R. Come si legge nelle pagine del libro, i temi che tratto sono rivolti a chi ha raggiunto la consapevolezza che la nostra natura umana è regolata da forze potenti, emozioni, sentimenti, desideri, che vanno amministrati con saggezza ma che, di certo, non hanno nulla di divino e che trovano il loro equilibrio solo grazie all’uso sapiente della ragione.
Secondo me noi agiamo seguendo le nostre passioni e una delle esperienze più totalizzanti della nostra esistenza è quella che ci vede assaporare il dolore e la sofferenza psicologica come strumenti di conoscenza per raggiungere nuovi saperi. Proprio così capiamo chi siamo davvero, quali sono le nostre potenzialità, i nostri limiti, quali le espressioni emotive che ci caratterizzano, qual è il nostro modo, il nostro stile personale di vivere la vita che si esprime come continua ricerca di bellezza e conciliazione tra integrità e rottura, tra forza e fragilità.
Nell’introduzione del libro scrivo: “A chi non si può perdonare? A una grande passione tradita: che sia un partner, un ideale, una professione, un progetto. A un’amicizia che ci ha illuso e deluso. A Dio e, a volte, a se stessi”. Credo che valga per molti di noi. Nella mia storia personale ho imparato che i segni delle ferite imperdonabili e i sentimenti a essi legati non vanno celati e camuffati, ma espressi e accettati: sono solchi indelebili ma possiedono dignità, vigore, vitalità, creatività. Come nell’arte giapponese del Kintsugi, la tecnica ricostruttiva di oggetti in ceramica che restaura con l’oro le fratture e non con sostanze invisibili. Dopo una sofferenza indicibile noi siamo le fratture dorate che non vanno nascoste ma celebrate perché ci portano a scoprire una nuova forma di bellezza personale.
Scrivendo il libro ho dato respiro al pensiero che le offese subite che ci hanno ferito scuotono una profonda risonanza emotiva che non possiamo nascondere e che ogni crisi esistenziale legata all’esperienza del dolore, se sapientemente controllata, ci può indurre a dispiegare il nostro potenziale creativo, anche se c’è bisogno di tanto tempo e tanto impegno per giungere a questo traguardo.
D. Perché leggere questo libro? Quali sono le sue attese nei riguardi dei lettori?
R. Leggerlo può essere di conforto perché i propri sentimenti e i vissuti personali si percepiscono rispecchiati nelle argomentazioni che presento: questo li porta a essere osservati con maggiore limpidezza, liberandosi dal peso del giudizio negativo se non si sente vibrare, nelle proprie corde, lo spirito del perdono. Oppure perché si può trovare una motivazione inaspettata per intraprendere un percorso di potenziamento della mente e raggiungere una maggiore consapevolezza emotiva.
Riguardo alle mie aspettative mi attendo anche dei confronti aspri: non penso che tutti siano d’accordo con le mie argomentazioni, ma confido nella buona volontà intellettuale dei lettori nel volere superare il giudizio unanime sulla valenza malevola e negativa del rancore lasciandosi guidare dalle mie ragionamenti.
Credo che tutti noi, almeno una volta nella vita, abbiamo capito che non si può più guardare con gli stessi occhi la realtà o una persona come se nulla fosse successo, ma che inevitabilmente il dolore modifica la percezione che abbiamo di noi stessi, della nostra identità e dell’Altro che è il responsabile della ferita che ci provoca sofferenza, chiunque o qualsiasi cosa esso sia. Questo fa parte della nostra natura umana e la nobilita.
Il rancore è un dono…. tutto lo è dipende alla sua comprensione e dall’uso che se ne fa. Per mia esperienza credevo di esserne immune; invece un giorno sono stato soggiogato dal rancore fino a che non ho compreso che il dilaniato ero io e non il bersaglio a cui miravo. Da qui una visione più leggera e fluida fino alla comprensione degli eventi e a una consapevolezza che può essere più che perdono…. Tema affascinante, eterno, trasversale… complimenti per avere analizzato anche provocatoriamente
l’argomento
Ho pubblicato l’articolo di Laura Tappatà perché ho letto il suo libro e l’ho trovato interessante e molto approfondito, sia sul piano filosofico e sociologico. Anche se non sono d’accordo. Io credo che scendiamo sulla Terra attirando le persone e le esperienze che non abbiamo risolto. E quindi ogni persona che ci ferisce, ci maltratta, ci umilia, ci fa del male, ci fa da specchio, riflette una parte oscura di noi, la nostra Ombra, e ci permette di pagare un karma. Quindi, mentre sul piano umano o psicologico, quella persona è da esecrare e da punire, su un piano spirituale è da ringraziare per averci permesso di elaborare i nostri difetti, le nostre mancanze, di vedere e riequilibrare ciò che abbiamo fatto in altre vite. Aspetto altri commenti. Manuela Pompas
Si prova a perdonare per noi stessi, per allegerire il peso,per riuscire a eliminare quel filo sottile che ci “lega” alla persona,quando vorremmo solo mettere distanza Personalmente la rabbia e il rancore mi hanno in qualche modo “sostenuto” nel dolore profondo,e ho scelto il rancore alla vendetta . Ho lavorato tanto x nn sentire più “ballare la pancia” quando penso o parlo dell’argomento… ma poi mi esprimo con parole aspre che riportano a galla il vissuto …nn perdonato! nn è facile quando nn può esserci confronto ,chiarimento, quando nn si è nella stessa lunghezza d’onda, e si perpetua l’atteggiamento a ogni incontro nel tempo!
Lo sò ho scelto io la famiglia gli incontri…..e sono stati maestri, ma è dura!
Libro interessante mi incuriosisce.